Quando i parassiti insegnano ai moscerini a non barare

Se solo lo volessero fare, i moscerini dei fichi (Agaonidae, una diffusa famiglia di imenotteri) potrebbero barare. Questi minuscoli insetti impollinano i fichi in cambio di qualche seme e – almeno in linea teorica – potrebbero utilizzare molti più semi di quanto non sia loro realmente necessario. L’ingordigia dei moscerini dei fichi è però trattenuta da un piccolo particolare recentemente scoperto dai biologi. Alcuni parassiti riescono a far mantenere una condotta onesta agli impollinatori.

Simbiosi moscerini/fichi [credit: eb.com]I fichi e i moscerini vivono in una strettissima simbiosi, ovvero dipendono gli uni dagli altri per sopravvivere e riprodursi. Il frutto del fico racchiude in sé alcune centinaia di minuscoli fiori e semi, ed è dotato di un buco attraverso il quale possono introdursi i moscerini. Una volta all’interno, gli insetti depongono le loro uova negli ovuli del fico, banalizzando molto, la parte del fiore in cui generalmente si sviluppano i semi. Per ogni larva il fico “deve” quindi il costo di un seme. Quando i moscerini hanno terminato la loro trasformazione dallo stato larvale emergono dal fico, trasportando con loro il polline che verrà rilasciato su un’altra pianta. Questo processo di aiuto reciproco perdura da circa 60 milioni di anni in un equilibrio pressoché perfetto, senza che i moscerini abbiano mai deciso di rompere il contratto utilizzando un maggior numero di ovuli, cosa che avrebbe abbattuto considerevolmente le possibilità di riproduzione per la pianta.

Partendo da queste conoscenze, un gruppo di ricercatori, guidato dal prof. James Cook della University of Reading (Regno Unito), ha cercato di scoprire in base a quale fenomeno i moscerini dei fichi siano stati sempre ligi al loro patto d’acciaio con quella particolare pianta da frutta. Secondo il team di ricerca, il merito non andrebbe tanto ai moscerini, quanto a una specie di parassiti che dipendono sempre dai fichi per nutrire le loro larve, ma che si palesano solo quando i moscerini hanno già deposto le loro uova. Invece di entrare all’interno del fico, i parassiti perforano il frutto dall’esterno e depongono le loro uova solo negli ovuli che già ospitano le larve dei moscerini, uccidendo così gli occupanti originari.
Perforando il frutto dall’esterno, i parassiti non possono però raggiungere tutti gli ovuli presenti al suo interno. Dunque, se i moscerini dei fichi evitano di essere ingordi e utilizzano unicamente i semi presenti al centro del frutto, impediscono ai parassiti di raggiungere le loro larve e ucciderle per depositare i nuovi ospiti. Leggi tutto “Quando i parassiti insegnano ai moscerini a non barare”

Il fiore più grande del mondo aveva antenati microscopici

Rafflesia arnoldii è uno dei fiori più grandi al mondo [credit: parasiticplants.siu.edu]Si chiama Rafflesia arnoldii ed è uno dei fiori più grandi al mondo. Al massimo del proprio sviluppo supera generalmente il metro di diametro e i 7 chilogrammi di peso. A differenza degli altri fiori, però, questo gigante vegetale emana un odore a dir poco pestilenziale che ricorda, in tutto e per tutto, la puzza acre e nauseante della carne in putrefazione.

Rafflesia arnoldii è uno dei fiori più grandi al mondo [credit: flowers-insolita.com]Per molti anni numerosi botanici si sono interrogati sulle origini e l’evoluzione di questo singolare fiore. Dopo una lunga serie di ricerche, un gruppo di scienziati ha finalmente identificato la pianta da cui originò e mutò nel corso dei secoli la Rafflesia arnoldii.
Secondo il team di ricerca, la pianta dal fiore gigante deriverebbe dalla famiglia delle “piccole” Euphorbiaceae, che contempla tra le specie più conosciute il ricino e la tapioca. Risalire al gruppo di appartenenza della Rafflesia non è stato per nulla semplice, la pianta è infatti un parassita e non risponde ad alcuni marcatori solitamente utilizzati per definire con certezza la famiglia di una specie vegetale. Leggi tutto “Il fiore più grande del mondo aveva antenati microscopici”

Dai broccoli la cura contro le malattie genetiche della pelle

Il sulforafano, un tipo di molecola costituita da numerosi elementi presenti nei broccoli e altre bressicaceae (cavolo, rapa, cavolfiore…), è da tempo conosciuto per le sue notevoli proprietà preventive nei confronti del cancro. Ora, questa particolare molecola si è dimostrata molto efficace per trattare l’epidermolysis bullosa simplex (EBS), una patologia ereditaria che affligge la pelle rendendola estremamente fragile e soggetta a irritazioni anche molto estese e gravi. La scoperta è stata recentemente comunicata dal prof. Pierre Coulombe, della Johns Hopkins University School of Medicine (Baltimora – USA), che ha condotto una lunga serie di analisi con il proprio team di ricerca.

Vescicole causate dalla Epidermolysis bullosa simplex [credit: skincareguide.ca]L’EBS è una malattia rara, ma estremamente dolorosa e pericolosa per chi ne è affetto. A causa di questa patologia ereditaria, la pelle si riempie di vere e proprie vesciche piene di acqua. Talvolta a causare questi sfoghi cutanei basta il semplice attrito di un asciugamano sulla pelle. Al momento non esiste cura per questa malattia, ma solamente alcuni trattamenti palliativi generalmente poco efficaci.
Nei pazienti che soffrono di EBS, gli strati più profondi di epidermide – costituiti da particolari cellule chiamate cheratinociti – sono estremamente fragili e si rompono con molta facilità. A livello molecolare, la maggior parte dei casi di EBS è causata dalla mutazione del gene deputato a produrre le proteine cheratina-5 (K5) e cheratina-14 (K14). Queste proteine si combinano per formare i particolari filamenti del citoscheletro (la struttura “ossea” della cellula) nei cheratinociti.

dna.jpgPartendo da queste conoscenze, il team di ricercatori guidato da Coulombe ha cercato di sopperire alla mancanza delle proteine utilizzando le potenzialità del sulforafano. Il codice genetico dei mammiferi contiene le istruzioni per creare ben 54 tipi diversi di proteine cheratiniche, a dimostrazione di quanto il processo evolutivo abbia sempre premiato la presenza di questi elementi nel nostro DNA. Molte di queste proteine sono estremamente simili tra loro e svolgono spesso funzioni praticamente identiche. Coulombe ha così pensato di sfruttare questo enorme potenziale, cercando di creare delle proteine cheratiniche “supplenti” per colmare i vuoti lasciati da K5 e K14.

I ricercatori hanno così identificato le strette parenti delle proteine mancanti, ovvero K6, K17 e K16. Nei test di laboratorio queste supplenti si sono dimostrate estremamente efficienti nel riparare ai danni causati dalla mancanza di K5 e K14. E qui entra in gioco il sulforafano. Recenti studi, pubblicati sulla rivista scientifica PNAS la scorsa estate, hanno dimostrato la capacità del sulforafano di indurre la produzione di K17 e K16 nei cheratinociti. Il trattamento con questa molecola, di cui sono ricchi i broccoli, ha consentito di far regredire sensibilmente gli effetti devastanti della EBS sulla cute. Considerati i risultati incoraggianti ottenuti in laboratorio, dovrebbero partire presto i primi trial clinici per verificare l’effettiva efficacia del trattamento a base di sulforafano anche negli esseri umani. Occorrerà ancora molto tempo prima di poter usufruire di un innovativo farmaco contro la EBS, ma la strada intrapresa è molto promettente e potrebbe porre presto fine a questa terribile malattia invalidante.

La saliva delle piante carnivore, pesticida del futuro?

Le piante carnivore integrano la loro dieta povera, dovuta al suolo privo di sali minerali in cui crescono, intrappolando e digerendo insetti e piccoli artropodi. Mentre un tempo si pensava che le piante appartenenti al genere Nepenthes catturassero le loro prede con un semplice sistema passivo, una innovativa ricerca pubblicata sulla rivista scientifica PLoS One ha svelato come queste particolari piante utilizzino una secrezione simile alla saliva per imprigionare le loro vittime.

“Anatomia” di un esemplare di Nepente [credit: honda-e.com]Attraverso un’attenta e accurata analisi, i ricercatori Laurence Gaume e Yoel Forterre (rispettivamente dell’Università di Montpellier e dell’Ateneo di Marsiglia) hanno dimostrato come il fluido contenuto all’interno del calice della pianta sia sufficientemente viscoso da impedire a una preda di fuggire, anche in presenza di un diluente come le gocce d’acqua di un acquazzone del Borneo.
Charles Darwin, il padre della teoria dell’evoluzione, fu tra i primi uomini di scienza ad osservare e descrivere il meccanismo della Nepente. Come molti altri botanici che seguirono, egli ipotizzò che la sostanza viscosa presente all’interno della pianta fosse utilizzata unicamente per digerire la preda, e non per intrappolarla.

Esemplari di Nepenthes [credit: tropicaldesigns.com]Gaume e Forterre hanno così deciso di unire le loro rispettive conoscenze in biologia e fisica per risolvere l’arcano legato alla Nepente. I due ricercatori hanno così scoperto il ruolo fondamentale del liquido secreto dalla pianta per catturare le prede. Per arrivare a questa conclusione, Gaume e Forterre hanno utilizzato sofisticate telecamere in grado di riprendere immagini ad altissima velocità.
Osservando la dinamica di numerosi insetti catturati dalla pianta, è stato possibile determinare con precisione l’incredibile efficacia del liquido viscoso secreto dalla Nepente. Anche in presenza di una diluizione superiore al 90%, la “saliva vegetale” si è dimostrata estremamente efficace compiendo a dovere il proprio dovere, intrappolando la preda senza lasciarle alcuno scampo. Analizzando alcuni campioni, i due ricercatori sono stati in grado di carpire il segreto del viscoso liquido secreto dalla pianta. Questo fluido è infatti composto da migliaia di microscopici filamenti viscoelastici dotati di una eccezionale resistenza, in grado di non lasciare scampo agli insetti che, nel tentativo di liberarsi, segnano progressivamente la loro condanna avviluppandosi intorno agli appiccicosi filamenti.

Le incredibili proprietà viscoelastiche del fluido rimangono praticamente invariate anche ad altissime diluizioni, dimostrando la grande capacità di adattamento di questa pianta ai climi estremamente umidi in cui vive. La consistenza del liquido ricorda molto quella della saliva prodotta da molti rettili e anfibi, che la utilizzano per scopi molto simili durante la loro caccia agli insetti.
I due ricercatori francesi cercheranno ora di comprendere la composizione chimica di questo liquido, unico nel suo genere in tutto il regno vegetale, e già si ipotizzano i primi usi per l’impiego di pesticidi completamente eco-compatibili., basati su questo fluido, da impiegare nelle piantagioni.

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OGM contro l’infarto

Alcune particolari qualità di piante geneticamente modificate, in grado di produrre omega-3 con i loro oli essenziali, potrebbero costituire un’ottima protezione contro l’infarto e altre patologie vascolari. Utilizzando questi vegetali nella nutrizione degli animali, si potrebbero aumentare sensibilmente le quantità di omega-3 nella dieta senza intaccare le riserve ittiche sempre più scarse.

La lunga catena degli acidi grassi omega-3 [credit: Wikipedia IT]Le catene di acidi grassi EPA e DHA, contenute principalmente nell’olio di tonno, salmone e sgombro, possono fornire un’alta protezione contro le malattie cardiovascolari a rallentare la degenerazione neuronale negli anziani, nonché favorire lo sviluppo delle capacità mentali del feto nel grembo materno.
Gli esperti raccomandano di assimilare almeno 450mg di oli contenenti omega-3 ogni giorno, ma la maggior parte degli adulti ne assume mediamente la metà. Tra gli adolescenti, la quantità precipita ad appena 100mg al giorno, meno di un quarto della razione giornaliera consigliata. La carenza di questi importanti nutrienti può avere numerosi effetti negativi sulla salute delle persone maggiormente predisposte a patologie vascolari e di degenerazione cerebrale.
Il progetto europeo Lipgene raccoglie circa 200 scienziati ed economisti, impegnati da numerosi anni nello studio di precise strategie per aumentare l’assunzione di omega-3 nella dieta dei cittadini europei. Un’analisi svolta dal progetto ha dimostrato che la spesa per implementare l’uso di omega-3 si tradurrebbe in un considerevole risparmio per le cure sanitarie.

Secondo Ian Givens, professore alla University of Reading (Regno Unito) e membro del progetto Lipgene, una soluzione per la scarsa assunzione di omega-3 potrebbe essere l’integrazione di questi nutrienti nei cibi maggiormente graditi dai consumatori. «Ci eravamo posti l’obiettivo di raggiungere la quantità di 300mg di EPA e DHA in una porzione di carne da 200g. L’obiettivo è stato raggiunto e, se questa strategia venisse applicata in maniera estensiva, potremmo arrivare a un consumo giornaliero effettivo di 120-130mg al giorno di omega-3». Per ottenere questo risultato, Givens ha sperimentato un innovativo alimento per il pollame, basato su un mangime ricco di oli ottenuto dai pesci. Nonostante i risultati incoraggianti, questa soluzione non ridurrebbe però il depauperamento delle riserve ittiche mondiali.
Per molti ricercatori l’unica soluzione sostenibile per aumentare i livelli di omega-3 nella nostra dieta sarebbe il ricorso agli organismi geneticamente modificati: «È l’unica strada percorribile. In natura non esistono piante in grado di sintetizzare gli omega-3, per questo motivo la genetica è quindi la nostra unica alternativa» ha dichiarato il ricercatore Johnathan Napier.

EPA e DHA sono normalmente prodotti da alcune microscopiche alghe marine, che costituiscono la principale fonte di alimentazione per i piccoli pesci, che danno il via alla diffusione di questi acidi grassi nella catena alimentare. Napier ha così prelevato alcuni geni dalle alghe e li ha inseriti nelle piante di colza, che hanno così iniziato a sintetizzare gli oli ricchi di omega-3. Questi OGM potrebbero essere impiegati negli allevamenti, con benefici sia per il bestiame che per i consumatori delle loro carni. Questi oli sarebbero inoltre privi di contaminazioni da mercurio, un metallo sempre più presente in mare e di conseguenza in numerose specie ittiche.
La proposta di Napier ha naturalmente destato molta inquietudine tra i convinti oppositori all’introduzione degli OGM nella nostra alimentazione. Ancora una volta occorrerà capire, in maniera scientifica e rigorosa, se i vantaggi offerti dalle carni ricche di omega-3 supereranno i potenziali svantaggi di una tecnologia le cui conseguenze sono ancora poco note.

Svelato il mistero delle foglie rosse d’autunno

Secondo una recente ricerca gli alberi cambierebbero la colorazione delle loro chiome per ottenere dalle foglie tutto il nutrimento possibile prima di entrare nella fredda e avara stagione invernale. La ricercatrice Emily Habinck, University of North Carolina (USA), è giunta a questa conclusione dopo una lunga e attenta analisi di due terreni, caratterizzati da una diversa concentrazione di nutrienti. Le foglie appartenenti agli alberi cresciuti sul suolo maggiormente fecondo sono diventate gialle nel periodo autunnale, mentre quelle appartenenti alle piante cresciute su un suolo povero di nutrienti hanno assunto una colorazione rossa.

“In poche parole: più una foglia è rossa, più sarà in grado di riciclare i propri nutrienti” ha spiegato Emily Habinck durante la presentazione della sua scoperta a un meeting in Colorado.
A differenza di quanto si potrebbe pensare, i meccanismi che regolano il cambiamento di colore cui vanno incontro le foglie non è ancora completamente chiaro. Quando si avvicina l’autunno, gli alberi smettono di pompare clorofilla nelle loro foglie e iniziano a ridistribuire i nutrimenti in esse contenuti nel tronco e nelle radici. Questo stratagemma consente loro la sopravvivenza durante i rigidi e bui mesi invernali. Il colore giallo visibile sulle chiome degli alberi è dovuto all’assenza della clorofilla, che lascia così trasparire i carotenoidi presenti sulla struttura della foglia. La colorazione rossa, invece, deriva da una particolare antocianina prodotta durante la stagione autunnale dalle piante.

Le antocianine conferiscono la colorazione rossa alle foglie degli alberi cresciuti su terreni poveri di nutrientiPerché gli alberi investano tante energie per produrre queste antocianine rimane ancora un mistero. Secondo alcuni ricercatori questi pigmenti svolgerebbero un’importante funzione antiossidante, che aumenterebbe la resistenza degli alberi durante la stagione fredda. Secondo altri botanici, invece, le antocianine sarebbero prodotte per attirare i volatili in modo che disperdano i semi dei frutti prodotti dagli alberu. Altri ancora sostengono che l’assunzione di una pigmentazione che vira al rosso contribuirebbe ad aumentare la temperatura della pianta, preservandone le parti vitali dal freddo.

Lo studio di Emily Habinck potrebbe contribuire a risolvere definitivamente questo enigma. Secondo le sue analisi, gli alberi cresciuti su un suolo particolarmente povero tenderebbero a mantenere il più a lungo possibile le foglie per immagazzinare un alto numero di nutrienti. Producendo più antocianine, gli alberi sarebbero quindi in grado di conservare le foglie e utilizzarle per sfruttare i benefici della fotosintesi clorofilliana anche nei primi mesi dell’autunno. Mentre per gli alberi che possono trarre nutrimento da un terreno molto fertile sarebbe uno spreco mantenere le foglie, per le piante radicate su terreni poveri di nutrienti il prolungato mantenimento delle foglie costituirebbe una fondamentale fonte per accumulare energie per la stagione invernale.