Puliamo il Mondo!

logopim.gifRitorna anche quest’anno, dal 28 al 30 settembre, l’iniziativa “Puliamo il Mondo“, versione italiana di “Clean Up the World“, il più importante appuntamento di volontariato ambientale organizzato sul Pianeta.
Dal 1993 l’organizzazione di questo importante appuntamento è gestita da Legambiente, grazie all’aiuto di oltre 1000 gruppi sparsi su tutto il territorio nazionale che gestiscono le iniziative di “Puliamo il Mondo” in collaborazione con associazioni, comitati e amministrazioni comunali.

La scorsa edizione dell’iniziativa ha riscosso un enorme successo con oltre 1.800 comuni aderenti e quasi un milione di volontari che, armati di tanta buona volontà, hanno ripulito 4.000 siti tra aree urbane, spiagge, boschi e strade, raccogliendo circa 2.000 tonnellate di rifiuti.
Legambiente e i suoi partner tecnici contano di superare il record del 2006, sfruttando le potenzialità del Web per diffondere capillarmente le informazioni sull’iniziativa.

Chi volesse partecipare a “Puliamo il Mondo” può consultare il sito dell’iniziativa alla voce “Dove si svolge” per compiere una ricerca geografica sui punti di incontro sparsi sul territorio nazionale.
“Puliamo il Mondo” non è solo un’iniziativa per rendere più bello e abitabile l’ambiente in cui viviamo, ma come ricorda Legambiente “è anche l’occasione per mettere sotto la lente d’ingrandimento i problemi legati al degrado ambientale e per costruire insieme, nuove soluzioni per il nostro futuro.”

[tags]puliamo il mondo, legambiente, clean up the world, rifiuti, pulizia, ecologia[/tags]

Un interruttore per spegnere il cancro

Una nuova ricerca ha identificato una minuscola molecola in grado di rendere le cellule tumorali del seno più attive e invasive. Questa molecola potrebbe diventare presto un nuovo bersaglio per la cura del cancro.

Molecola di microRNA [photo credit: Wikipedia]Il microRNA è un polimero organico simile al DNA, ma deputato al controllo dell’attività dei geni nei processi di copia del codice genetico in numerose specie di piante e animali. Da elemento fondamentale per la regolamentazione nei processi di riproduzione cellulare, si suppone che talvolta le molecole di microRNA si tramutino in veri e propri nemici dell’organismo in cui si trovano, causando il cancro.
Nonostante non sia ancora completamente chiaro come ciò possa avvenire, recenti studi hanno evidenziato come molti microRNA si sviluppino nelle aree del genoma umano (il nostro patrimonio genetico) che determinano la predisposizione ad alcune tipologie di cancro.

Celulla cancerogena al microscopio elettronicoGuidato dal prof. Robert Weinberg, un gruppo di ricercatori del Whitehead Institute for Biomedical Research (Cambridge, Massachusetts – USA) ha indagato il ruolo del microRNA nella diffusione (metastasi) delle cellule tumorali del cancro al seno.
I ricercatori hanno così identificato un particolare tipo di microRNA, chiamato miR-10b, molto presente e attivo nelle cellule tumorali più aggressive. Bloccando l’azione del miR-10b, il gruppo di ricerca è riuscito nella complicata impresa di diminuire fino a 10 volte l’aggressività di queste cellule tumorali.
Per confermare la loro scoperta, i ricercatori hanno poi introdotto le molecole di miR-10b in alcune cellule “non invasive” del tumore al seno che, in brevissimo tempo, sono diventate altamente aggressive e in grado di produrre estese metastasi.

Pubblicata sulla rivista scientifica Nature, la ricerca condotta da Weinberg e il suo team potrebbe portare a una nuova terapia per la cura del cancro al seno.
Impegnato ad approfondire i legami tra miR-10b e alcuni geni responsabili della moltiplicazione cellulare, Robert Weinberg invita però a non lasciarsi prendere dai facili entusiasmi ricordando che “Non abbiamo ancora una conferma definitiva che intervenendo su miR-10b sia possibile invertire i processi di metastasi.”
Lo studio portato a termine dal team del Whitehead Institute for Biomedical Research ha suscitato grande interesse tra genetisti e oncologi, sempre più convinti che la strada per sconfiggere il cancro passi dalla doppia elica del DNA.

Vedere il Nord magnetico

Ogni anno milioni di uccelli migratori compiono un lungo viaggio verso le aree climatiche più calde del Pianeta. Ma come fanno tutti questi volatili a percepire con precisione il nord e a orientarsi durante i loro spostamenti?
Una rivoluzionaria ricerca potrebbe finalmente fornire la risposta.

In quasi tutta Europa questo uccello migratore è diffuso da maggio a settembre. La sua residenza invernale è nell’Africa tropicale [photo credit: David Nowell]Per anni si è ipotizzato che il campo magnetico terrestre fosse in grado di influenzare i movimenti oculari degli uccelli migratori, aiutandoli nella difficile impresa di puntare il loro sguardo verso il nord. Partendo da questa ipotesi, un gruppo di ricercatori dell’Università di Oldenburg (Germania) è riuscito a dimostrare l’esistenza di una diretta relazione tra il movimento oculare degli uccelli, influenzato dal nord magnetico, e le aree del cervello deputate al mantenimento della rotta in volo.
Guidati dal prof. Dominik Heyers, i ricercatori hanno iniettato due tipi di liquido di contrasto sensibili agli impulsi neuronali nelle aree del cervello legate all’orientamento e nella retina di alcuni esemplari di Beccafico (Sylvia borin). Giunto il momento della migrazione, i due fluidi si sono attivati evidenziando un percorso neuronale comune fino al talamo degli uccelli, una struttura nervosa del cervello responsabile della visione.
Questa inequivocabile reazione a livello anatomico confermerebbe la teoria secondo cui gli uccelli migratori percepirebbero il campo magnetico come una vera e propria sensazione visiva, non esclusivamente mentale.

Molecola di criptocromoLa ricerca, recentemente pubblicata su Public Library of Science One, confermerebbe poi il ruolo fondamentale di una particolare proteina presente negli occhi degli uccelli migratori, il criptocromo.
Si suppone che queste proteine siano talmente sensibili al campo magnetico da essere in grado di “orientarsi” verso il nord. “Ciò significa che se un uccello guarda in una data direzione, il nord magnetico potrebbe essere visto come un piccolo puntino nero dalla sua retina” ha spiegato Heyers ai giornalisti, precisando il livello ancora altamente teorico di questa supposizione “del resto non possiamo chiedere agli uccelli migratori come e cosa vedono…”.

Il lavoro del team di Heyers dimostra in maniera inequivocabile un legame diretto tra le percezioni visive degli uccelli migratori e la loro capacità di orientarsi nello spazio.
La ricerca di Heyers si inserisce nel grande filone di studi e analisi condotti per scoprire cosa davvero renda il meccanismo di orientamento degli uccelli migratori così infallibile. Altri ricercatori hanno recentemente scoperto la presenza di alcuni cristalli magnetici nei becchi dei volatili che compiono migrazioni. Secondo Heyers i due sistemi di orientamento (becco – occhi) potrebbero essere complementari. Il becco verrebbe utilizzato per creare una sorta di mappa mentale del percorso, mentre i criptocromi potrebbero svolgere la funzione di una potente e affidabile bussola.
E il navigatore satellitare è servito…

Coleotteri giganti grazie all’Ossigeno

fogliacoleottero.jpgSecondo un gruppo di entomologi dell’Arizona State University (Tempe, USA), i coleotteri che popolano le nostre campagne potrebbero avere dimensioni spaventose se la concentrazione di ossigeno sul Pianeta ritornasse ai livelli di milioni di anni fa.
Lo studio dei ricercatori statunitensi ha dimostrato come molti insetti fossero estremamente più grandi durante il Paleozoico, grazie alla maggiore concentrazione di ossigeno nell’aria.

Rappresentazione schematica dell’apparato respiratorio di un insettoLa maggior parte degli insetti possiede un sistema respiratorio molto differente dal nostro, che non si basa su naso e polmoni per assumere ossigeno, ma su particolari forellini chiamati “spiracoli” attraverso i quali ogni insetto inspira ossigeno ed espira anidride carbonica.
Questi fori, disseminati in diversi punti del corpo, conducono a numerosi “tubicini” centrali (l’apparato tracheale) che fanno circolare in tutto l’organismo dell’insetto l’aria. Più gli insetti crescono, più questi “tubicini” si allungano e si allargano per mantenere costante il livello di ossigeno in tutto il corpo.
Chiudendo gli spiracoli, gli insetti possono gestire e regolare la quantità di ossigeno che circola nel loro organismo. Alcune specie sono in grado di sopravvivere per più di 24h con la quantità di ossigeno immagazzinata, senza dover mai aprire gli spiracoli.

Radiografia di un coleottero, nell’addome si intravede il complesso apparato trachealePartendo da queste conoscenze, il team di entomologi statunitensi ha utilizzato i raggi-X per comparare le dimensioni degli apparati tracheali di quattro specie di coleotteri grandi tra 3mm e 3,5cm.
Si è cosi scoperto che l’apparato tracheale del coleottero più grande (un esemplare di Eleodes obscura) occupa – in proporzione – molto più spazio nell’addome dell’insetto rispetto al “collega” lungo appena 3mm. Questo perché negli individui più sviluppati l’apparato respiratorio non solo si allunga per raggiungere gli arti, ma diventa anche più ricco di terminazioni e “tubicini” per gestire efficacemente l’alta richiesta di ossigeno necessaria per mantenere vivo e attivo l’insetto.
La crescita sproporzionata della dimensione dell’apparato tracheale raggiunge una fase critica nel punto di giunzione tra le zampette e l’addome dei coleotteri. Per ragioni anatomiche, in questa particolare area l’articolazione non può superare una certa misura, limitando di conseguenza le possibilità di crescita dei coleotteri.
Secondo i calcoli effettuati dai ricercatori, la crescita fuori scala dell’apparato respiratorio impedisce ai coleotteri di svilupparsi oltre i 16 centimetri di lunghezza. La conclusione degli entomologi coincide “sul campo” con le misure del coleottero più grande fino ad ora conosciuto, il Titanus giganteus, che da adulto raggiunge la ragguardevole lunghezza di 15-17 cm.

Un esemplare di Titanus giganteus, il coleottero più grande finora conosciutoMa se la strettoia nell’articolazione delle zampe impedisce ai coleotteri di crescere oltre una certa misura, com’è possibile che durante il Paleozoico questi insetti raggiungessero mostruose dimensioni?
Per i ricercatori dell’Arizona State University la risposta è molto semplice. Cinquecento milioni di anni fa l’alta concentrazione di ossigeno nell’aria (il 66% in più di quanto non sia oggi) consentiva ai coleotteri di far circolare nel loro organismo grandi quantità di O2 con un apparato tracheale più piccolo e meno sviluppato.
Ciò dimostra, almeno indirettamente, che alcune specie di coleotteri durante il Paleozoico avessero trovato le condizioni ideali per svilupparsi e crescere superando le dimensioni dei molti vertebrati di piccola taglia che popolavano il Pianeta.

[fonti Science e Proceedings of the National Academy of Sciences]

Un dinosauro in più

Dopo 24 anni di attente ricerche e accurati raffronti, lo scheletro di dinosauro ritrovato vicino Choteau (Montana, USA) è stato – a sorpresa – classificato come una nuova specie “intermedia” tra i dinosauri Nord Americani e quelli Asiatici.
Vissuto 80 milioni di anni fa e pesante poco meno di 20kg, il dinosauro scoperto a Choteau si muoveva sfruttando unicamente le zampe posteriori ed era alto circa un metro.

La notizia è stata pubblicata sull’ultimo numero del Journal of Vertebrate Paleontology da Jack Horner, paleontologo e curatore del Montana State University’s Museum of the Rockies.
Fu proprio Horner a scoprire i resti fossili di Choteau nel 1983 imprigionati in alcuni sedimenti di roccia molto dura e per questo magnificamente conservanti. Ricostruita la fisionomia del dinosauro, Horner impiegò poi una ventina di anni prima di trovare un esperto in grado di identificare il suo ritrovamento.
“Immaginavo potesse trattarsi di una nuova specie di dinosauro ancora da catalogare, ma avevo bisogno di qualcuno estremamente esperto in grado di confermare la mia tesi” ha dichiarato Horner ai giornalisti.

Dopo molti anni, per la prima volta il fossile di Choteau verrà ora esposto al Museum of the Rockies. Lo scheletro del dinosauro è caratterizzato da una singolare colorazione rossastra, dovuta al lungo processo di fossilizzazione che sostituì parte delle ossa con il diaspro, una roccia sedimentaria di composizione silicea di colore rosso.
Questa nuova specie di dinosauro è stata chiamata Cerasinops Hodgkissi. Cera, per gli amici, è l’unico esemplare conosciuto con caratteristiche comuni ai due ceppi di dinosauri localizzati nell’America del Nord e in Asia e potrebbe fornire molte informazioni utili ai paleontologi per mappare gli stadi evolutivi di numerose specie di dinosauro.

Un grande BANG!

Lassù nel Cosmo, a milioni di anni luce dal nostro piccolo Pianeta, alcune stelle di neutroni producono i campi magnetici più grandi di tutto l’Universo, con una potenza di centinaia di miliardi di volte superiore al “piccolo” campo magnetico prodotto dalla Terra.
Una stella di neutroni ha generalmente un diametro vicino ai 20 chilometri e una massa complessiva molto densa, che può arrivare a misurare tre volte quella del Sole. Questi “ammassi” di neutroni (le particelle elementari prive di carica elettrica) sono estremamente veloci e sono in grado di compiere un’intera rotazione in pochi secondi, generalmente da 1 a 30 a seconda delle caratteristiche della stella.

Un Magnetar in piena attività [Photo credit: NASA/Aurore Simonnet/Sonoma State University]Talvolta queste enormi calamite cosmiche producono sorprendenti esplosioni, il cui meccanismo è noto solo in parte agli astrofisici, che da tempo cercano di comprendere cosa causi queste immense emissioni di energia.
Un modello matematico elaborato al computer e basato sull’osservazione del Magnetar (una stella di neutroni dotata di un potentissimo campo magnetico) XTE-J180-197 potrebbe finalmente fornire qualche indizio sul “movente” di queste spettacolari esplosioni.

Grazie al modello computerizzato e a un’analisi molto attenta dei dati, un team di astrofisici ha identificato quello che potrebbe essere il punto di innesco delle gigantesche esplosioni magnetiche dei Magnetar. Queste avrebbero luogo in un’area ristretta appena al di sotto della superficie della stella e non tra le “nubi” di particelle estremamente cariche di elettricità come si pensava in precedenza.
Pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal, questo innovativo studio apre una nuova speranza per gli astronomi, fornendo nuovi dati e informazioni per risolvere l’enigma che si cela dietro alle esplosioni magnetiche delle stelle di neutroni.

[tags]cosmo, universo, magnetar, astrofisica, stelle di neutroni, NASA[/tags]