Le super-batterie non sono più un’utopia

Nonostante le costanti migliorie, i dispositivi elettronici portatili continuano ad avere un vero e proprio tallone d’Achille: i tempi di autonomia delle batterie. Un nuovo passo avanti nelle nanotecnologie potrebbe, però, portare presto a una nuova generazione di “serbatoi” di energia elettrica.
Un particolare tipo di batterie agli ioni di litio, recentemente implementato, è infatti in grado di immagazzinare molta più energia: fino a dieci volte in più rispetto alle attuali batterie. Teoricamente, questo nuovo tipo di batteria potrebbe alimentare per giorni un computer portatile o un’automobile elettrica in grado di compiere centinaia di chilometri con una sola ricarica. I tempi di commercializzazione non saranno, però, molto brevi.

Rappresentazione schematica di un atomoL’importanza della scoperta risiede nella possibilità di aumentare considerevolmente la capacità di carica di ogni singola batteria. Quando un accumulatore di energia viene ricaricato, gli ioni di litio caricati positivamente “rubano” un elettrone alla fonte di energia e migrano verso l’anodo. Durante l’utilizzo della batteria, gli ioni di litio restituiscono l’elettrone che avevano sequestrato e, migrando verso il catodo, forniscono l’energia per far funzionare il dispositivo cui è collegata la pila. Generalmente gli anodi sono costituiti da microscopici strati di atomi di carbonio: ne occorrono mediamente sei, di questi atomi, per ospitare ogni singolo ione di litio. Il silicio è, invece, molto più efficiente: occorrono appena quattro atomi di questo materiale per trattenere ogni singolo ione di litio.
Partendo da questo presupposto, i ricercatori hanno provato a costruire degli anodi costituiti da atomi di silicio e non più di carbonio. In un primo momento, i risultati sono stati molto meno incoraggianti del previsto. Gli ioni di litio, infatti, hanno letteralmente polverizzato gli strati atomici di silicio, diminuendo così la complessiva efficienza della batteria.

Nanofibre di silicio [Credit: C. K. Chan et al., Nature Nanotechnology, Advance Online Publication (16 December 2007)]Il team guidato dal ricercatore Yi Cui, Stanford University (Palo Alto, California), non si è però dato per vinto. Dopo numerosi tentativi, il gruppo di ricerca specializzato in nanotecnologie è riuscito a sviluppare un supporto costituito da microscopiche fibre di silicio in grado di resistere alle sollecitazioni causate dagli ioni di silicio. Così facendo i ricercatori hanno raggiunto una buona efficienza energetica che potrebbe rivelarsi il futuro asso nella manica delle batterie per i dispositivi portatili.
La ricerca di Yi Cui, recentemente pubblicata su Nature Nanotechnology, dimostra come la nuova soluzione tecnologica delle nano-fibre sia in grado di prolungare fino a dieci volte la durata standard di una batteria. Occorrerà ancora del tempo perché la miglioria apportata da Yi Cui possa finire nei nostri iPod o computer portatili. Tuttavia, ciò che un tempo pareva essere un semplice sogno, si sta trasformando sempre di più in un concreto futuro.

Il coleottero che arrossisce

Il coleottero Cassidini, appartenente alla famiglia Chrysomelidae, vive principalmente in Centro America nello Stato di Panama. Questo particolare insetto è in grado di tramutare la colorazione del proprio “guscio” da una tinta oro brillante al rosso in meno di due minuti. Mentre molti coleotteri modificano la loro colorazione esterna in virtù di specifiche variabili come la temperatura, questo inquilino del Centro America è una delle poche creature conosciute in grado di controllare autonomamente il cambiamento della pigmentazione del proprio organismo.

Coleottero Cassidini [credit: Jean-Pol Vigeron]

Il segreto di questo piccolo insetto risiede nella sua capacità di modificare i flussi dei fluidi all’interno del proprio esoscheletro, costituito da una ventina di strati che cambiano colorazione quando sono colpiti dal sole. Quando la luce illumina gli strati dell’esoscheletro, il coleottero mostra la propria normale colorazione dorata. Per cambiare colore, questo piccolo insetto non fa altro che “asciugare” il proprio esoscheletro dall’umidità, così da assorbire una maggiore quantità di luce che, non riflettendosi, dà vita alla colorazione rossastra.
Lo scopo di questa trasformazione non è ancora del tutto chiaro, ma molti ricercatori suppongono che il coleottero arrossisca per allontanare i predatori fingendosi un insetto velenoso.

Secondo il ricercatore Jean-Pol Vigneron (Università di Namur – Belgio), che ha recentemente pubblicato una ricerca su questo insetto per l’American Physical Society, le proprietà del coleottero potrebbero essere presto imitate per creare una nuova generazione di materiali in grado di modificarsi con l’umidità. Le applicazioni potrebbero essere svariate dai vasi di fiori per segnalare l’aridità del terriccio alle lavagne ad acqua a nuove garze “intelligenti” per le medicazioni. E tutto per merito di un piccolo coleottero che, non certo per timidezza, è solito arrossire…

Coleottero Cassidini [credit: www.mobot.org]

Saturno a che velocità corre?

Nascosto da una spessa coltre di nubi, Saturno ruota su sé stesso a una velocità costante ancora sconosciuta agli astronomi. Le nuove misurazioni della sonda Cassini potrebbero, però, rivelare preziose informazioni per risolvere questo enigma astronomico, almeno secondo un gruppo di ricercatori che ha recentemente pubblicato i risultati del proprio studio sulla rivista scientifica Science.

Il vento solare distorce la rilevazione delle onde radio emesse da Saturno [credit: NASA.gov]Determinare la lunghezza di un giorno su uno dei giganti gassosi del nostro sistema solare non è semplice. La parte interiore del pianeta è completamente mascherata dalle impenetrabili nubi dell’atmosfera. Per misurare la sua rotazione interna, gli scienziati devono quindi cercare di sfruttare le emissioni radio prodotte dal “cuore” del pianeta.
Le particelle elettriche intrappolate nel campo magnetico, che origina nelle profondità di Saturno, emettono onde radio con una frequenza che si aggira intorno ai 100 kHertz. L’osservazione della variazione delle onde radio in rapporto ai cambiamenti del campo magnetico potrebbe consentire agli astronomi di identificare con sufficiente precisione la velocità di rotazione del pianeta.

Le sonde Ulisse e Voyager sorvolarono Saturno diversi anni, fornendo risultati a dir poco contrastanti. Dai calcoli risultava, infatti, che il pianeta avesse allungato la propria corsa giornaliera di almeno sei minuti: un dato che aveva lasciato molto scettici gli astronomi. Le nuove misurazioni compiute da Cassini sembrano escludere categoricamente questo rallentamento; piuttosto, pare che qualcosa interferisca nelle emissioni radio del pianeta, distorcendo così le rilevazioni dei dati.
Secondo i ricercatori, il vento solare potrebbe essere la causa principale di questa distorsione nei dati registrati da Cassini: le interferenze si verificano regolarmente ogni 25 giorni, proprio in concomitanza con le fasi di maggiore attività del Sole rispetto a Saturno.

Saturno, fotografato dalla sonda Voyager 2 nel 1981 [credit: NASA.gov]Gli astrofisici cercheranno ora di elaborare un modello matematico in grado di filtrare l’influenza negativa del vento solare sulle rilevazioni, ma non sarà semplice. Le “folate” che provengono dal Sole aumentano e diminuiscono progressivamente nell’arco dei 25 giorno. Il cambiamento è dunque graduale e quindi ancor più difficile da escludere dalle misurazioni.
La scoperta della reale velocità di rotazione di questo pianeta gassoso potrebbe essere più vicina di quanto si immagini. Una volta ottenuto un dato certo, gli astronomi potranno elaborare con maggiore precisione le loro teorie legate all’evoluzione di Saturno, il pianeta degli anelli. [fonti principali: Science ed ESA – European Space Agency]

La specie umana è ancora in piena evoluzione

Numerosi evoluzionisti pensano che il raggiungimento di condizioni di vita molte alte in numerose parti del Pianeta abbia ridotto sensibilmente il nostro processo evolutivo. Una nuova e controversa ricerca potrebbe però sovvertire questo convincimento. Ben distante dall’arrestare la propria corsa, l’evoluzione umana avrebbe accelerato di cento volte negli ultimi 5000 anni. Ciò significa che la specie umana si starebbe evolvendo in diversi tipi autonomi, piuttosto che in un unico ceppo omogeneo.

dna.jpgGuidato dal paleoantropologo Henry Harpending, un gruppo di ricercatori della University of Utah (USA) ha analizzato il DNA di 270 individui, provenienti da ogni parte del mondo, per mappare le variazioni in alcuni geni che determinano la predisposizione a talune malattie. I ricercatori hanno così isolato i casi di polimorfismo a singolo nucleotide, una mutazione che interessa il DNA e che si diffonde attraverso la popolazione. Ottenuti i dati su queste variazioni, il gruppo di ricerca ha sondato migliaia di dati provenienti da Europa, Africa e Asia per valutare l’estensione della mutazione nelle singole popolazioni. Quando una variazione diviene costante nel DNA significa che è vantaggiosa ai fini evolutivi, e viene quindi mantenuta dal nostro codice genetico.

I risultati della ricerca, pubblicati recentemente sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, sono per molti aspetti sorprendenti. Secondo i ricercatori, il processo evolutivo avrebbe subito un’accelerazione in almeno 1800 geni, equivalenti al 7% dell’intero genoma umano. Molte delle mutazioni sono riconducibili all’aumento della natalità: quando una popolazione si espande, aumenta il numero delle variazioni genetiche che possono così portare a benefici per la sopravvivenza della specie. Ciò avviene in maniera pressoché identica tra gli insetti: un’ampia popolazione di parassiti ha molte più probabilità di sviluppare un gene che la renda immune ai pesticidi rispetto a una popolazione numericamente limitata.

Principali stadi dell’evoluzione umanaLa ricerca condotta da Harpending e il suo team non è però qualitativa, ma principalmente quantitativa. Ciò significa che l’identità e le funzioni di quel 7% di geni in rapida mutazione non sono ancora del tutto note. In linea di massima, molte delle informazioni genetiche in evoluzione sarebbero legate alle malattie maggiormente virulente e ai cambiamenti dovuti alle abitudini alimentari. Alcune mutazioni consentono ad alcune popolazioni umane di digerire e metabolizzare meglio l’amido, i grassi saturi e il lattosio.
Lo studio condotto da Harpending è ancora parziale, ma prospetta un processo evolutivo della nostra specie molto più complesso e differenziato di quanto si potesse immaginare. [fonte principale: Science]

Un depuratore contro le contaminazioni ospedaliere

Le acque di scarico degli ospedali sono contaminate con farmaci e sostanze chimiche potenzialmente pericolose per l’ambiente. Mentre i rifiuti solidi delle strutture ospedaliere vengono smaltiti con numerose precauzioni, si fa ancora troppo poco per la purificazione delle acque di scarico. Un nuovo impianto, appositamente progettato per risolvere alla radice il problema, potrebbe essere la giusta soluzione per evitare all’ambiente la somministrazione di farmaci non desiderati.

Antibiotici, citostatici, sostanze psicotrope, antinfiammatori. Sono migliaia i farmaci somministrati ogni giorno ai pazienti degli ospedali. Buona parte di queste sostanze viene espulsa naturalmente dal loro organismo per raggiungere gli impianti fognari. Le tracce lasciate da questi medicinali non sono biodegradabili e resistono quindi ai tradizionali metodi di purificazione delle fogne. I farmaci raggiungono così le acque dei fiumi e, pressoché intatti, entrano nel ciclo naturale dell’acqua contaminando l’ambiente. Lo studio di questo fenomeno è relativamente recente, si hanno quindi ancora pochi dati su cui valutare l’impatto delle acque contaminate degli ospedali. Secondo molti esperti, però, il costante depauperamento delle risorse ittiche, la diminuzione dell’effetto degli antibiotici e la ridotta fertilità negli uomini potrebbero essere causati dai farmaci non correttamente smaltiti e ancora presenti nel ciclo dell’acqua.

Per cercare di risolvere il problema, il Duisburg Institute of Energy and Environmental Technology (IUTA), in collaborazione con il Fraunhofer Institute for Environmental, Safety and Energy Technology (UMSICHT), ha sviluppato un nuovo metodo per purificare le acque degli ospedali direttamente alla fonte, prima che le stesse siano immesse negli impianti fognari. Molto versatile e semplice da installare, il dispositivo potrà essere utilizzato in aree specifiche degli ospedali, come i reparti di oncologia che a causa dei farmaci chemioterapici sono tra i reparti più inquinanti delle strutture ospedaliere. Il trattamento messo a punto da IUTA e UMSICHT si è rivelato estremamente efficace. Nei test di laboratorio, il purificatore ha ripulito al 99% le acque di scarico, eliminando anche i farmaci più rersistenti come gli antibiotici, i citostatici e i medicinali per il trattamento del dolore.

Il principio di funzionamento del dispositivo di purificazione è molto semplice, ma estremamente efficace. Le parti solide vengono depositate in una tanica di sedimentazione, mentre le acque contaminate passano in una camera di reazione dove raggi ultravioletti e perossido di idrogeno producono i radicali (dei “ladri” di elettroni) in grado di disgregare e disattivare i principi attivi dei farmaci.
Terminata la fase di sperimentazione, un incentivo consentirà alle strutture ospedaliere della Germania di installare il dispositivo di depurazione nei propri sistemi idrici. Considerati i promettenti risultati ottenuti, con costi relativamente bassi, i depuratori potrebbero essere presto adottati in buona parte dell’Unione Europea. Una buona notizia per l’ambiente, e per i tanti pesci proverbialmente sani che abitano fiumi e mari.

La saliva delle piante carnivore, pesticida del futuro?

Le piante carnivore integrano la loro dieta povera, dovuta al suolo privo di sali minerali in cui crescono, intrappolando e digerendo insetti e piccoli artropodi. Mentre un tempo si pensava che le piante appartenenti al genere Nepenthes catturassero le loro prede con un semplice sistema passivo, una innovativa ricerca pubblicata sulla rivista scientifica PLoS One ha svelato come queste particolari piante utilizzino una secrezione simile alla saliva per imprigionare le loro vittime.

“Anatomia” di un esemplare di Nepente [credit: honda-e.com]Attraverso un’attenta e accurata analisi, i ricercatori Laurence Gaume e Yoel Forterre (rispettivamente dell’Università di Montpellier e dell’Ateneo di Marsiglia) hanno dimostrato come il fluido contenuto all’interno del calice della pianta sia sufficientemente viscoso da impedire a una preda di fuggire, anche in presenza di un diluente come le gocce d’acqua di un acquazzone del Borneo.
Charles Darwin, il padre della teoria dell’evoluzione, fu tra i primi uomini di scienza ad osservare e descrivere il meccanismo della Nepente. Come molti altri botanici che seguirono, egli ipotizzò che la sostanza viscosa presente all’interno della pianta fosse utilizzata unicamente per digerire la preda, e non per intrappolarla.

Esemplari di Nepenthes [credit: tropicaldesigns.com]Gaume e Forterre hanno così deciso di unire le loro rispettive conoscenze in biologia e fisica per risolvere l’arcano legato alla Nepente. I due ricercatori hanno così scoperto il ruolo fondamentale del liquido secreto dalla pianta per catturare le prede. Per arrivare a questa conclusione, Gaume e Forterre hanno utilizzato sofisticate telecamere in grado di riprendere immagini ad altissima velocità.
Osservando la dinamica di numerosi insetti catturati dalla pianta, è stato possibile determinare con precisione l’incredibile efficacia del liquido viscoso secreto dalla Nepente. Anche in presenza di una diluizione superiore al 90%, la “saliva vegetale” si è dimostrata estremamente efficace compiendo a dovere il proprio dovere, intrappolando la preda senza lasciarle alcuno scampo. Analizzando alcuni campioni, i due ricercatori sono stati in grado di carpire il segreto del viscoso liquido secreto dalla pianta. Questo fluido è infatti composto da migliaia di microscopici filamenti viscoelastici dotati di una eccezionale resistenza, in grado di non lasciare scampo agli insetti che, nel tentativo di liberarsi, segnano progressivamente la loro condanna avviluppandosi intorno agli appiccicosi filamenti.

Le incredibili proprietà viscoelastiche del fluido rimangono praticamente invariate anche ad altissime diluizioni, dimostrando la grande capacità di adattamento di questa pianta ai climi estremamente umidi in cui vive. La consistenza del liquido ricorda molto quella della saliva prodotta da molti rettili e anfibi, che la utilizzano per scopi molto simili durante la loro caccia agli insetti.
I due ricercatori francesi cercheranno ora di comprendere la composizione chimica di questo liquido, unico nel suo genere in tutto il regno vegetale, e già si ipotizzano i primi usi per l’impiego di pesticidi completamente eco-compatibili., basati su questo fluido, da impiegare nelle piantagioni.

https://youtu.be/_mLGDvO9xfo