Scarafaggi robot e scelte di gruppo

Un gruppo di ricercatori della Vrije Universiteit Brussel ha recentemente creato una nuova generazione di robot in grado di interagire con… gli scarafaggi. Come dei provetti pifferai magici, questi minuscoli concentrati di tecnologia comunicano con gli scarafaggi, convincendoli a seguirli lungo un determinato percorso. I risultati di questa innovativa, e curiosa, ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Science e non serviranno certo per elaborare nuovi metodi di disinfestazione, ma per studiare con maggiore accuratezza le scelte comportamentali di questi insetti. «Gli scarafaggi agiscono in gruppo, cercano di muoversi sempre insieme. Ci siamo quindi chiesti: “Come riescono a coordinare le decisioni? Chi comanda? Che genere di informazioni si scambiano? In che modo le condividono?» ha dichiarato Jose Halloy, alla guida del team di ricercatori.

Scarafaggi alle prese con un loro simile robotizzato [credit: ULB-EPFL]Per osservare il comportamento degli scarafaggi, il gruppo di ricerca ha ricreato un particolare ambiente in cui ha installato un paio di tane molto particolari dotate di un doppio intercapedine, in cui gli insetti si potessero nascondere molto rapidamente se esposti alla luce, elemento che rifuggono istintivamente. Inseriti in questo particolare ambiente, gli scarafaggi hanno vagato senza una meta precisa per un po’ di tempo, per poi ritrovarsi tutti sotto la medesima tana. Che questi insetti si siano riuniti sotto un’unica tana non ha sorpreso più di tanto i ricercatori, gli scarafaggi sono infatti estremamente socievoli. Nonostante ciò, la mente di uno scarafaggio è molto poco evoluta e non consente la creazione di un “pensiero”, se pur istintivo, legato al concetto di leader. Il fatto che tutti gli esemplari abbiano scelto la medesima tana è dunque parso come un fenomeno “magico” agli occhi dei ricercatori.

Scarafaggi naturali e scarafaggi robot [credit: homepages.ulb.ac.be/~jhalloy/]Secondo numerosi entomologi, gli scarafaggi basano la loro decisione sulla direzione da percorrere in base a due criteri: la quantità di oscurità di un determinato luogo e quanti “colleghi” possono trovare in quel posto. Quando un certo numero di scarafaggi costituisce una massa critica riunita in un medesimo luogo, accade che gli altri esemplari seguano la massa unendosi al gruppo.
Partendo da questo presupposto, Halloy e i suoi colleghi hanno pensato di creare un meccanismo in grado di spingere gli scarafaggi a compiere un gesto innaturale. La scelta è ricaduta così sulla costruzione di alcuni scara-bot, piccoli insetti robotizzati, in grado di condizionare il comportamento degli scarafaggi. Debitamente cosparsi con una particolare sostanza odorosa, gli scara-bot sono stati facilmente riconosciuti e accettati dalla comunità di scarafaggi. Programmati con un semplice software in grado di far preferire ai robot l’oscurità e i luoghi affollati, gli scarafaggi artificiali si sono perfettamente integrati senza destare alcun sospetto tra i loro simili naturali.

Scarafaggi si raggruppano sotto la medesima tana dello scara-bot [credit: Jean-Louis Deneubourg]I ricercatori hanno poi modificato il software degli scara-bot, insegnando loro a prediligere ambienti meno oscuri, quindi meno tollerati dagli scarafaggi. Inseriti nel particolare ambiente ricreato per gli esperimenti, gli scarafaggi – naturali e non – hanno vagato senza una precisa meta per diversi minuti. Gli scara-bot si sono poi rifugiati nella tana maggiormente luminosa e per questo meno gradita agli scarafaggi. Nonostante ciò, gli insetti hanno imitato il comportamento dei robot rifugiandosi nella loro stessa tana. Questo considerevole risultato dimostra in maniera diretta quanto un ristretto gruppo di insetti sia in grado di prendere una decisione collettiva, successivamente condivisa dall’intera comunità.

Questa peculiarità potrebbe essere estesa ad insetti e animali molto più complessi. Non a caso i ricercatori sono ora impegnati nella creazione di un particolare robot per analizzare il comportamento dei polli. Da questo genere di studi potrebbero giungere molti elementi per approfondire le nostre conoscenze non solo nelle procedure cognitive degli animali, ma anche nella creazione di un’intelligenza artificiale sempre più complessa e autonoma: il futuro della robotica.
Certo, un robot-pifferaio magico contro gli scarafaggi non sarebbe poi tanto male…

In Antartide per simulare la vita sulla Luna

Le terre gelide e inospitali dell’Antartide diverranno presto lo scenario per uno dei più interessanti esperimenti legati al prossimo ritorno dell’uomo sulla Luna. La National Science Foundation (NSF) e la NASA utilizzeranno il continente congelato per sperimentare una particolare struttura ideata per ospitare gli astronauti sul nostro satellite naturale. Questa tenda gonfiabile è ora in viaggio verso l’Antartide per essere sottoposta a un anno di durissimi test.

Il prototipo è stato creato dalla ILC Dover, sotto l’attenta osservazione e le precise indicazioni di NFS e NASA. Tutte e tre le organizzazioni saranno presenti sulle gelide terre del continente per misurazioni e rilevazioni che si protrarranno per circa 13 mesi, dal gennaio 2008 al febbraio 2009. Al momento, questa casa gonfiabile è uno dei progetti più promettenti per alloggiare gli astronauti sulla Luna.
«Testare questo habitat gonfiabile in uno dei climi più duri ed estremi offerti dal nostro Pianeta sarà una grande opportunità per prevedere come potrà essere la vita nelle prossime esplorazioni lunari» ha dichiarato Paul Lockhart, direttore del Constellation Systems per l’Exploration Systems Mission Directorate della NASA.

Alloggio lunare [credit: Credit: Peter West / NSF]A un primo sguardo la tensostruttura gonfiabile assomiglia molto a quelle giostre gonfiabili dei parchi di divertimento, ma la tecnologia che contiene è naturalmente molto più sofisticata. Completamente isolata dall’esterno, è riscaldata, offre energia elettrica ed è pressurizzata. Occupa un’area di poco inferiore ai 36 metri quadrati ed ha un soffitto alto due metri e mezzo. Una serie di sofisticati sensori, dislocati in punti particolari dell’abitazione lunare, consentirà ai ricercatori di studiare reazioni e deterioramento della tensostruttura.

Alloggio lunare, interno [credit: Credit: Peter West / NSF]In Antartide si lavorerà molto alacremente, il Constellation Program della NASA prevede un ritorno sulla Luna intorno al 2020. Dopo una serie di prime spedizioni, gli astronauti costruiranno sul satellite una vera e propria base spaziale, immaginata e progettata per durare numerosi anni. L’esigenza di sperimentare e sviluppare moduli abitativi sicuri, pratici e funzionali è quindi uno dei punti cardine per consentire all’uomo di creare il primo avamposto nella sua storia su un satellite naturale.
«Per ogni mezzo chilo di materiale da spedire sulla superficie lunare, sarà necessario un lancio di 57kg tra carburante e lanciatore. I moduli abitativi dovranno quindi essere molto leggeri, ma anche resistenti e sicuri. L’habitat gonfiabile che stiamo sperimentando risponde a queste esigenze e richiede solamente una squadra di quattro persone per essere montato in poche ore, permettendo di ampliare l’esplorazione ben oltre l’area di atterraggio» ha dichiarato Lockhart.

Concept per un nuovo mezzo lunare [Credit: NASA] Concept per un nuovo mezzo lunare [Credit: NASA]Prototipo per mezzo lunare [credit: Franklin Fitzgerald]

Oltre ai moduli abitativi, il Constellation Program sta sviluppando una nuova flotta di navi spaziali e razzi, così come un’innovativa serie di macchinari per il trasporto e la produzione di energia sulla superficie della Luna. Il 2020 è più vicino di quanto si possa immaginare, e NSF e NASA non possono perdere neanche un giorno di lavoro.

Celle combustibili più efficienti grazie ai batteri

Apportando particolari modifiche a un prototipo di celle a combustibile, un gruppo di ricercatori è riuscito a far produrre idrogeno a dei comunissimi batteri con un altissimo grado di efficienza. Coadiuvato dai suoi colleghi della Penn State University, il prof. Bruce Logan era già riuscito a dimostrare con successo la possibilità di produrre energia elettrica grazie ad alcuni microbi. Ora, partendo da materiali molto semplici, il team di ricerca è riuscito a “convincere” quelli stessi microbi a produrre idrogeno.

credit: psu.edu Dopo aver sperimentato alcune modifiche, migliorando il microclima per i batteri e modulando alcune piccole scariche elettriche, il gruppo di ricercatori è riuscito nella considerevole impresa di portare la produzione di idrogeno da esseri viventi a un nuovo record.
«Abbiamo ottenuto la più alta produzione di idrogeno mai raggiunta con questo tipo di procedimento legato a sorgenti organiche. Utilizzando l’aceto abbiamo raggiunto un efficienza produttiva pari al 91%, con la comune cellulosa il 68%» ha dichiarato entusiasta Bruce Logan, responsabile del progetto scientifico. Nella maggior parte degli esperimenti, praticamente tutto l’idrogeno contenuto nelle molecole di partenza è stato convertito dai batteri in gas, con un efficienza che potrebbe aprire le porte per una nuova era nella produzione di idrogeno per celle a combustibile su larga scala.
I risultati della ricerca sono stati recentemente pubblicati sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.

Cella combustibile [credit: nsf.gov] Esistono altri sistemi che consentono la produzione di idrogeno su larga scala, ma praticamente nessuno raggiunge il livello di efficienza energetica. «Questo è possibile perché i batteri sono in grado di estrarre con estrema rapidità ed efficacia l’energia dalla materia organica» ha dichiarato Logan.
I ricercatori coinvolti nello studio intendono ora perfezionare ulteriormente la loro scoperta, rendendo l’habitat dei batteri nella cella a combustibile sempre più simile a quello in cui normalmente vivono. Ciò dovrebbe aumentare ulteriormente l’efficienza energetica ottenuta fino a dieci volte rispetto ai processi di elettrolisi oggi esistenti. La nuova cella a combustibile potrebbe rendere molto più performanti numerosi dispositivi, nonché accelerare l’eterna gestazione dell’auto a idrogeno.

Plancton oceanico aumenta il prelievo di CO2, ma non è una buona notizia

I microscopici organismi marini che costituiscono il plancton starebbero assorbendo maggiori quantità di anidride carbonica in risposta al progressivo aumento di CO2 su scala globale. Un team internazionale di ricercatori, coordinati dal Leibniz Institute of Marine Sciences (Germania), ha registrato per la prima volta questa sorprendente reazione biologica del plancton. Partendo dai dati raccolti, il gruppo di ricerca ha poi creato una proiezione sul futuro ecosistema degli oceani, registrando un aumento nell’assorbimento di CO2 pari al 39%.

Plancton al microscopioL’inaspettata reazione del plancton all’aumentare dei gas serra, che potrebbe contribuire a contenere gli effetti deleteri dell’anidride carbonica sul Pianeta, pone però considerevoli interrogativi sui rischi che potrebbero correre gli ecosistemi oceanici. Secondo la ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Nature, un eccessivo prelievo di CO2 da parte del plancton renderebbe molto più acide le acque nelle profondità oceaniche, rendendole povere di ossigeno e difficilmente abitali da moltissime specie ittiche. Un eccesso di anidride carbonica comporterebbe, inoltre, un considerevole decadimento della qualità del plancton, compromettendo l’esistenza di molti animali marini.

Gli oceani sono dei veri e propri polmoni per il nostro Pianeta. Si stima che fino ad ora, essi abbiano “digerito” oltre il 50% dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo attraverso l’impiego dei carburanti fossili. Lo studio delle reazioni del plancton alla crescita di CO2 diventa quindi fondamentale per capire quanto ancora i nostri oceani siano in grado di sottrarre gas serra dall’atmosfera.
Per scoprire i processi biologici oceanici e le loro potenzialità, gli scienziati hanno approntato una serie di nove mesocosmi (piccoli laboratori in cui attuare simulazioni) sulle coste della Norvegia, in cui sono stati isolati 27 metri cubi d’acqua ottenuta dell’oceano. In tre mesocosmi i ricercatori hanno lasciato agire quantità di CO2 pari a quelle registrate quotidianamente nell’atmosfera, mentre nei restanti mesocosmi sono state simulate le concentrazioni di anidride carbonica previste per il 2100. In quest’ultimi, la risposta del plancton è stata pressoché immediata: i microorganismi hanno da subito accelerato la fotosintesi accumulando maggiori quantità di CO2, fino al 39% in più rispetto ai tre mesocosmi di controllo.

onda.jpgLa maggiore rimozione di anidride carbonica dall’atmosfera, ad opera del plancton oceanico, potrebbe avere ottime ripercussioni sui cambiamenti climatici del futuro. Terminato il loro ciclo di vita, gli organismi che costituiscono il plancton affondano nelle profondità oceaniche portando con loro le quantità di CO2 rimosse dalla superficie degli oceani. Ciò che appare come una manna dal cielo per il nostro clima in affanno potrebbe, però, tramutarsi in una vera e propria condanna a morte per i fondali oceanici. La decomposizione degli organismi ricchi di CO2 comporterebbe un maggiore consumo di ossigeno, che verrebbe così sottratto alle tante specie marine che popolano i fondali. Gli strati più profondi degli oceani diverrebbero inoltre molto più acidi e inospitali per molte specie vegetali e animali, con danni incalcolabili per i tanti ecosistemi oceanici.

Palloni aerostatici: la nuova frontiera dell’astronomia

Nei primi giorni di ottobre, un enorme pallone aerostatico ampio 100 metri è stato fatto decollare dai cieli del New Mexico, con a bordo 2.500 chilogrammi di materiale per rilevazioni scientifiche.
Questo curioso lancio fa parte di una serie di test preliminari della missione Sunrise, ideata con l’intento di scattare le migliori fotografie mai realizzate del Sole. Queste immagini ad altissima definizione verranno utilizzate per comprendere meglio la possente e caotica struttura del campo magnetico solare, in grado di scatenare violente tempeste che talvolta coinvolgono anche il nostro pianeta.

Il pallone aerostatico lanciato dal New Mexico [credit: Carlye Calvin, UCAR]Il successo del progetto non solo consentirebbe di comprendere alcune caratteristiche della nostra stella, ma potrebbe anche costituire il punto di partenza per una nuova era dell’astronomia, basata sull’utilizzo di efficienti ed economici palloni aerostatici.
Il lancio ufficiale della missione Sunrise è previsto per l’estate del 2009, quando un pallone, equipaggiato con un potente telescopio, sarà lanciato dalla Svezia e portato a una quota di 37 chilometri d’altezza.
Assicurato a un complesso sistema di giroscopi, implementati per rendere minime le vibrazioni, il telescopio sarà in grado di scattare fotografie della superficie solare cogliendo dettagli fino a 30 chilometri di grandezza, sbaragliando di ben quattro volte la concorrenza del miglior telescopio puntato sul Sole in orbita intorno alla Terra. Non male per uno zoom che guarda a quasi 150 milioni di chilometri di distanza…

Ascesa del pallone aerostatico con la strumentazione per i rilevamenti [credit: Carlye Calvin, ©UCAR]Il test, realizzato nei primi giorni di ottobre, ha avuto esiti molto incoraggianti per le sorti del progetto. Riempito di elio, il pallone sì è librato nei cieli del New Mexico a una velocità di 18 chilometri orari. Abbandonata parte della zavorra, il pallone si è poi stabilizzato a un’altitudine di 37 chilometri, lasciandosi trasportare dolcemente dai venti di alta quota.
Sfortunatamente le basse temperature, circa -70°C, hanno compresso parte della strumentazione elettronica che non ha consentito di rilevare tutti i dati inviati dal pallone a terra.
Dopo circa 10 ore i ricercatori hanno interrotto l’esperimento, facendo saltare alcune cariche esplosive per distaccare le strumentazioni dal pallone. Queste sono atterrate regolarmente grazie ad alcuni paracadute che ne hanno addolcito la discesa, mentre il pallone è rimasto in quota più a lungo per poi raggiungere nuovamente il suolo.

Secondo Michael Knölker, responsabile del progetto e direttore dell’High Altitude Observatory del National Center for Atmospheric Research (NCAR) del Colorado, il costo complessivo della missione potrà aggirarsi sui 100 milioni di dollari, una missione spaziale equivalente costerebbe almeno dieci volte tanto. All’ambiziosa e innovativa ricerca partecipano alcuni enti europei e la NASA, molto interessati alle potenzialità di questo nuovo modo di “fare” astronomia.

Un polimero contro gli sprechi alimentari

Nonostante tutti gli sforzi profusi per ridurre al minimo gli sprechi, si stima che il 5% degli alimenti confezionati in bustine, bottigliette e tubi di plastica vengano gettati dai consumatori perché “imprigionati” nei loro contenitori.
L’impossibilità di ripulire a fondo le confezioni di alcuni cibi non comporta solamente uno spreco alimentare, ma costituisce anche un grave ostacolo per il riciclo dei materiali plastici con cui sono costruiti i contenitori.

La dottoressa Michaela Müller (Fraunhofer Institute for Interfacial Engineering and Biotechnology – Germania) è una esperta di polimeri, gli aggregati molecolari che danno origine alle macromolecole, e da anni si occupa di un innovativo progetto per creare nuovi materiali plastici per alimenti “refrattari” al cibo.
Per risolvere alla radice il problema, la dottoressa Müller ha elaborato un semplice processo per rivestire i contenitori dei cibi con un particolare strato antiaderente ottenuto grazie al plasma, un gas ionizzato costituito da elettroni e ioni con una carica globalmente neutra.

A differenza di quanto possa apparire, il procedimento ideato è incredibilmente semplice. Il contenitore da trattare viene inserito, con un elettrodo al suo interno e uno al suo esterno, in una piccola camera sottovuoto. Successivamente, un particolare gas polimerizzabile introdotto all’interno della camera sottovuoto viene esposto a una corrente elettrica. Questo procedimento attiva e rende incandescente il plasma, con un fenomeno del tutto analogo a quello osservabile nei comunissimi tubi a gas fluorescente, le famose “luci al neon”.
Grazie ai due elettrodi collocati all’esterno e all’interno, il plasma deposita un sottilissimo strato di un polimero all’interno del contenitore dello spessore di appena 20nanometri (un nanometro equivale a un milionesimo di millimetro).

La composizione del gas polimerizzabile utilizzato per il procedimento è gelosamente custodita dalla dottoressa Müller, che non intende ancora rivelarne i segreti. “Lo spessore di pochi nanometri consente al rivestimento di aderire perfettamente al contenitore senza lasciare residui o interagire minimamente con i cibi in esso contenuti” ha dichiarato entusiasta la ricercatrice.
Ciò che rende la scoperta della dottoressa Müller davvero interessante è la capacità del polimero di repellere numerosi alimenti. Il sottile strato del rivestimento è inoltre totalmente idrofobico, in grado cioè di respingere completamente le molecole d’acqua.

Nei prossimi due anni, la dottoressa Müller sarà impegnata nel difficile compito di elaborare polimeri specifici per differenti tipologie di alimenti, costituiti da percentuali molto diverse di acqua tra loro. La sua scoperta potrà essere applicata non solo alle bottiglie di ketchup o alle confezioni di maionese, ma anche ai cosmetici, ai prodotti chimici, agli oli dei motori e a qualsiasi altra sostanza che tende a rilasciare residui nel contenitore che la ospita.
I polimeri elaborati dalla dottoressa Müller e dai suoi collaboratori potrebbero far risparmiare centinaia di milioni di Euro ogni anno, riducendo al minimo gli sprechi e rendendo più semplici ed efficienti i processi di riciclaggio delle materie plastiche. Una buona notizia per tutti, anche per l’ambiente.