Scovato un gene legato all’effetto placebo

Schema delle principali aree del cervello (credit: Wikipedia EN)
Schema delle principali aree del cervello (credit: Wikipedia EN)

Prima di essere immessi sul mercato, i nuovi farmaci devono superare una lunga fase di test per verificarne efficacia e livelli di sicurezza. Le industrie farmaceutiche devono anche riuscire a dimostrare quanto il loro farmaco sia più efficace di un semplice placebo. In molti casi, infatti, i farmaci fittizi si rivelano efficaci quanti i farmaci veri e propri. Da tempo i ricercatori cercano di capire come il nostro organismo riesca a trovare dei benefici da un placebo. Una nuova ricerca potrebbe forse fornire presto una risposta a questa annosa domanda, grazie a un particolare gene da poco identificato.

In linea di massima, un placebo si dimostra efficace quando i pazienti credono di ricevere una cura vera e propria con un medicinale reale. L’idea di essere curati innesca una particolare risposta nel nostro organismo, che si mette a produrre la dopamina, un neurotrasmettitore in grado di alleviare i sintomi derivanti dal dolore cronico o dalla depressione. Ma come contribuisce l’effetto placebo nell’alleviare altre patologie?

Un gruppo di ricerca guidato da Tomas Furmark, della Uppsala University (Svezia), ha provato a fornire una risposta a questa domanda. Il team ha studiato una particolare patologia, la fobia sociale (che porta gli individui che ne sono affetti ad avere una profonda paura del giudizio degli altri) e gli effetti del placebo sulla amigdala, un’area del cervello implicata nello sviluppo del particolare stato ansioso. I ricercatori hanno condotto un test su alcuni pazienti affetti da fobia sociale. I volontari sono stati suddivisi a caso in due gruppi, al primo gruppo è stata assegnata una terapia quotidiana a base di serotonina, mentre al secondo una semplice pillola di zucchero al giorno spacciata come medicinale. Leggi tutto “Scovato un gene legato all’effetto placebo”

L’esame del DNA sbarca online con 23andMe

Fondata circa un anno fa, la società 23andMe permette di effettuare il proprio esame del DNA a prezzi particolarmente vantaggiosi con un sistema sicuro e integrato con la Rete per fornire informazioni, dati e dettagli sul proprio patrimonio genetico.

La forte impronta verso il Web di 23andMe è sicuramente data da Google, la società del famoso motore di ricerca che nell’iniziativa sui test per il DNA ha investito circa 4 milioni di dollari. Un investimento non indifferente che fa intravedere un certo interesse in nuce del colosso delle ricerche online, intenzionato a monetizzare in futuro le analisi del patrimonio genetico dei clienti di 23andMe.

Effettuare l’esame è semplice quanto depositare un poco di saliva in una provetta, precedentemente inviata dalla società statunitense. Una volta raccolto il campione, il kit viene inviato nuovamente negli Stati Uniti dove 23andMe provvede all’analisi del DNA e ne comunica i risultati attraverso il suo portale online. Ogni cliente ha dunque la possibilità di consultare i dati sul proprio patrimonio genetico direttamente attraverso il computer, ricevendo aggiornamenti e nuove informazioni sulle ultime scoperte inerenti le sue predisposizioni genetiche. Una nuova frontiera nelle analisi del DNA che, oltre ai numerosi vantaggi per conoscere le possibili patologie cui si potrà andare incontro, solleva numerosi problemi etici e legati alla sicurezza dei dati personali immagazzinati nei database di 23andMe. Leggi tutto “L’esame del DNA sbarca online con 23andMe”

Nel sangue viaggiano i segreti dei tumori

Cellula cancerogena al microscopio elettronico
Cellula cancerogena al microscopio elettronico

In un futuro non troppo lontano, i ricercatori potrebbero essere in grado di utilizzare semplici test del sangue per identificare le tipologie di tumore cerebrale al posto delle tradizionali e spesso invasive biopsie. Tale possibilità deriva da una recente scoperta molto importante, che ha gettato nuova luce su come le cellule tumorali comunichino con l’ambiente che le circonda.

Le cellule, infatti, comunicano in continuazione con ciò che le circonda attraverso i segnali elettrici e lo scambio di materiale proteico. Per garantirsi una buona possibilità di sopravvivenza e proliferazione, le cellule tumorali inviano spesso ai vasi sanguigni degli impulsi per segnalare la loro presenza e farli crescere nella loro direzione. Molti tipi di cellule, tra cui spiccano anche quelle legate al cancro, sono solite comunicare tra loro tramite l’emissione di piccole “bolle” di materiale cellulare chiamate microvescicole. Queste minuscole bolle contengono al loro interno le informazioni, in genere sotto forma di proteine e lipidi, destinate ad altre cellule in grado di decodificare il messaggio e comportarsi di conseguenza.

Partendo da questo presupposto, i ricercatori dell’Harvard Medical School di Boston (USA), guidati da Johan Skog, hanno deciso di esaminare con maggiore attenzione le microvescicole prodotte dalle cellule del tumore cerebrale, il glioblastoma. Precedenti analisi avevano evidenziato all’interno delle microvescicole la presenza di alcune sequenze di RNA, le istruzioni genetiche per ricreare il materiale cellulare. Insieme alla neurologa Xandra Breakefield, Skog ha così pensato di sviluppare un nuovo tipo di test per rilevare le informazioni genetiche contenute nell’RNA delle microvescicole. Leggi tutto “Nel sangue viaggiano i segreti dei tumori”

Il latte fa bene anche alla evoluzione

Il latte è sicuramente una preziosa fonte di calcio, ma in tempi ormai remoti ha anche costituito una risorsa fondamentale per l’evoluzione dei mammiferi. A dimostrarlo è una innovativa ricerca genetica, che ha evidenziato come l’allattamento si sia sviluppato ben prima che i mammiferi diventassero tali abbandonando la deposizione delle uova, retaggio dei rettili loro antenati. Secondo lo studio, il latte avrebbe favorito i cambiamenti biologici che progressivamente portarono alla gravidanza e al parto, come li conosciamo oggi, tra i mammiferi.

I primi mammiferi apparvero sul Pianeta all’incirca 200 milioni di anni fa. Nel corso del tempo, molte specie svilupparono la capacità di allevare e nutrire il feto nell’utero, abbandonando così la deposizione delle uova e adottando l’allattamento per nutrire i loro piccoli. Da quei tempi remoti a oggi, ben poche eccezioni si sono mantenute al modello diffuso delle gravidanze uterine dei mammiferi. Queste “eccezioni” appartengono all’ordine Monotremata, di cui fanno parte quegli animali, come l’ornitorinco, che depongono le uova, ma allattano poi i loro piccoli.
Partendo da queste conoscenze, il ricercatore Henrik Kaessmann (Università di Losanna, Svizzera) ha cercato di capire quali mutazioni genetiche avessero portato molte specie animali ad abbandonare le uova e a diventare mammiferi tout cour. Leggi tutto “Il latte fa bene anche alla evoluzione”

Scovate le aree genetiche della celiachia

Frumento [credit: nouriche.com]Un gruppo di ricercatori, che nel corso del 2007 aveva identificato uno dei fattori genetici che possono predisporre alla celiachia, ha da poco scoperto altre sette aree genetiche implicate nella creazione della predisposizione alla malattia. Guidato dal prof. David van Heel, docente della The London School of Medicine and Dentistry, il team di ricerca ha inoltre dimostrato come nove delle regioni appena identificate siano implicate anche nella predisposizione al diabete di tipo 1. La ricerca, recentemente pubblicata su Nature Genetics, apre dunque la strada per uno studio maggiormente approfondito delle due patologie.

Per ottenere questo importante risultato, i ricercatori hanno condotto una lunga serie di analisi sul genoma umano, cercando tutte le possibili associazioni con la celiachia. I marcatori genetici (una sequenza di DNA conosciuta e quindi utilizzabile come “chiave di ricerca” per trovare un legame tra una malattia e la sua causa genetica) sono stati poi confrontati sul patrimonio genetico di soggetti sani e di pazienti affetti da celiachia. Così facendo, i ricercatori hanno potuto isolare sette aree specifiche, le principali responsabili dello sviluppo della malattia.

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Mutazioni genetiche differenti per un medesimo risultato

AmblyopsidaeLa famiglia degli Amblyopsidae annovera sei specie di pesci totalmente ciechi, abituati a vivere in ambienti completamente bui come caverne e profondità marine. In questi luoghi privi di luce, la vista è il senso meno utile, per questo motivo lungo il loro corso evolutivo, questi pesci hanno progressivamente perso l’uso degli occhi. Secondo una recente ricerca, però, in alcune condizioni queste specie ittiche possono riguadagnare la vista. Le mutazioni in parte del loro patrimonio genetico possono interessare numerosi esemplari di un’unica generazione, la cui stirpe è rimasta al buio anche per milioni di anni.

«Il recupero dell’abilità visiva avviene nel tempo di una sola generazione poiché i gruppi di questi pesci che vivono in differenti cavità sono ciechi per motivi altrettanto differenti tra loro» ha dichiarato Richard Borowsky, che ha recentemente pubblicato i risultati della propria ricerca sulla rivista scientifica Cell Press. Il suo gruppo di ricercatori ha isolato una ventina di popolazioni diverse di questi pesci ciechi al largo delle coste del Messico nord-orientale.
Secondo gli studi condotti da Borowsky, ogni macrogruppo di pesci ha perso la vista con mutazioni genetiche differenti, dando luogo a una considerevole differenziazione a livello del loro genoma.

dna.jpgPartendo da questi presupposti, i ricercatori hanno provato a incrociare esemplari appartenenti a gruppi diversi per “rimescolare” le carte del loro patrimonio genetico. Come previsto da Borowsky, la nuova generazione ibrida ottenuta da questi incroci ha portato alla luce numerosi esemplari in grado di vedere, nonostante provenissero da stirpi ormai cieche da centinaia di migliaia di anni. Inoltre, all’aumentare della distanza degli habitat degli esemplari incrociati è aumentata considerevolmente la probabilità di ottenere un maggior numero di pesci in grado di rispondere agli stimoli visivi.
Semplificando molto, ciò significa che singoli gruppi di pesci posseggono geni differenti con le istruzioni per sviluppare la cecità. Incrociando pesci appartenenti a gruppi diversi, i geni responsabili della cecità di un gruppo vengono contrastati da quelli “normali” dell’altro gruppo e viceversa. Grazie a questa inibizione reciproca di alcuni fattori genetici, una percentuale di pesci nasce con il dono della vista.

Il risultato ottenuto non è solamente importante per i pesci ciechi della famiglia Amblyopsidae, ma per la ricerca sul DNA tout court. Lo studio dimostra, infatti, come l’evoluzione possa portare a precise trasformazioni (come l’eliminazione della vista, inutile per una vita perennemente al buio) procedendo con mutazioni genetiche estremamente differenti all’interno della medesima specie. Un risultato tutt’altro che scontato. [fonte principale: Cell Press]