Mario R. Capecchi, Martin J. Evans e Oliver Smithies Premi Nobel 2007

La Nobel Assembly ha ufficializzato il conferimento del premio nobel per la medicina a Mario R. Capecchi, Martin J. Evans e Oliver Smithies. Mentre si è giustamente parlato molto delle biografie dei tre premiati, minore attenzione è stata dedicata alla scoperta che è valsa loro il più ambito premio in ambito scientifico. Proviamo quindi a scoprire qualcosa di più su questa scoperta da Nobel.

Mario R. Capecchi [photo credit: Tim Roberts/PR Newswire, © HHMI]Attraverso studi e approcci differenti, i tre ricercatori insigniti con il premio Nobel sono stati artefici di una serie di scoperte senza precedenti legate alle cellule staminali e alla ricombinazione del DNA, il nostro patrimonio genetico, nei mammiferi. Le loro scoperte hanno portato alla creazione di una nuova tecnologia, il “gene targeting”, che potrà essere impiegata in medicina per lo sviluppo di nuove e rivoluzionarie terapie.
Utilizzato per disattivare singoli geni (i portatori delle istruzioni per costruire gli organismi viventi), il “gene targeting” consente di creare praticamente qualsiasi tipo di modifica al DNA, consentendo ai genetisti di valutare la funzione di ogni singolo gene.

Modificare i geni con la ricombinazione omologa
Oliver Smithies [photo credit: Scanpix/Dan Sears] Come sappiamo ormai da tempo, le informazioni per lo sviluppo e la vita degli organismi viventi sono contenute nella doppia elica del DNA. Questo libretto delle istruzioni è raccolto nei cromosomi, i contenitori del codice genetico ereditati a coppie dal padre e dalla madre. La “ricombinazione omologa” è il momento in cui il cromosoma maschile si fonde con quello femminile. Questo scambio di DNA consente l’estrema variabilità genetica rendendo ogni organismo praticamente unico al mondo.

Capecchi e Smithies partirono da questi presupposti, lavorando per anni sulla ricombinazione omologa nell’intento di modificare i geni dei mammiferi in maniera estremamente mirata.
Con i suoi studi, Capecchi dimostrò che la ricombinazione omologa poteva essere influenzata inserendo “pezzi di DNA” nei cromosomi. Il neo-Nobel per la medicina riuscì a riparare geni danneggiati intervenendo nella ricombinazione omologa con nuove istruzioni genetiche. Partendo dagli incredibili risultati ottenuti da Capecchi, Smithies scoprì che le porzioni di DNA endogeno (cioè inserito in laboratorio nelle cellule) potevano essere utilizzate in diversi tipi di geni a prescindere dalla loro funzione. Ciò suggerì che tutti i geni potessero essere modificati durante la fase di ricombinazione omologa.

Cellule embrionali staminali: l’anello mancante
Le tipologie di cellule inizialmente studiate da Capecchi e Smithies non potevano però essere usate per creare animali con specifiche mutazioni ottenute in laboratorio. E qui entra in scena Martin Evans, il terzo Premio Nobel di quest’anno per la medicina.
Evans aveva studiato per molto tempo un particolare tipo di cellule embrionali del carcinoma dei ratti (EC) che, nonostante provenissero da un tumore, potevano generare praticamente qualsiasi tipo di cellula. Evans decise di utilizzare le cellule di EC come un “cavallo di Troia” per introdurre nuovo materiale genetico nella linea di evoluzione del tumore nei ratti. Dopo alcuni tentativi fallimentari, Evans si rese conto che l’introduzione di nuovo materiale genetico poteva avvenire a uno stadio precedente in alcune cellule non ancora specializzate: le cellule embrionali staminali. L’anello mancante delle ricerche di Capecchi e Smithies.

Topo knockout
Gene targeting [Photo credit:Nobel Prize] Tra il 1986 e il 1989 i tre scienziati lavorano alacremente per la creazione del primo organismo vivente creato grazie al “gene targeting”. Capecchi e Smithies avevano trovato la strada per arrivare a questo risultato, mentre Evans l’automobile per compiere il tragitto identificato dai due colleghi.
Con la nascita negli anni Ottanta del primo topo “knockout”, cioè con l’espressione di un gene soppressa in laboratorio, i tre genetisti dimostrarono di essere in grado di determinare l’espressione genica in un organismo vivente. Una scoperta senza precedenti e dall’inestimabile valore scientifico.

La rivoluzione del “gene targeting”
Il “gene targeting” permette ormai da anni di approfondire le nostre conoscenze su molteplici aspetti della vita dei mammiferi. Questa tecnologia, affidabile e relativamente semplice da ottenere in laboratorio, è stata impiegata da centinaia di centri di ricerca in tutto il mondo, in un numero vastissimo e svariato di sperimentazioni.
Grazie a Capecchi, Smithies, Evans e al loro “gene targeting” è stato possibile scoprire la funzione di centinaia di geni implicati nello sviluppo dello stadio fetale dei mammiferi.
Le ricerche di Capecchi hanno fatto luce sul ruolo dei geni coinvolti nello sviluppo degli organi e della struttura anatomica dei mammiferi, contribuendo a risolvere molti misteri legati alle malformazioni prenatali.
Con i suoi studi, Evans è riuscito nell’ardua impresa di creare mappature genetiche ad hoc per studiare molte patologie umane sui ratti, ottenendo importantissimi risultati nella terapia genica di alcune malattie come la fibrosi cistica.
Come Evans, anche Smithies ha sfruttato il “gene targeting” per creare organismi ideali per lo studio di particolari patologie, come la talassemia, l’ipertensione e l’arteriosclerosi.

Il “gene targeting” interessa ormai quasi tutti i campi della medicina. Il suo impatto sulla ricerca genica e lo sviluppo di nuove cure per il cancro e molte malattie ereditarie è destinato ancora a crescere nei prossimi anni.
L’intera comunità scientifica, e noi tutti, dobbiamo moltissimo agli incredibili risultati ottenuti con caparbia e tenacia da Capecchi, Smithies ed Evans. E un Premio Nobel non poteva che essere il miglior “grazie” possibile.

Un virus contro il cancro

Un gruppo di ricercatori inglesi è riuscito nell’ardua impresa di trasformare geneticamente un virus, che normalmente causa il raffreddore, per combattere il cancro.

Il comune virus del raffreddore in un’elaborazione computerizzataGli oncologi e genetisti che hanno partecipato al progetto sono convinti che i virus geneticamente modificati potranno dimostrarsi molto più efficaci, e mirati, dei tradizionali farmaci chemioterapici. La chemioterapia, infatti, attacca e danneggia indiscriminatamente sia le cellule sane che quelle cancerogene, causando considerevoli effetti collaterali.
Guidata dal prof. Lawrence Young (University of Birmingham, UK), la ricerca sugli adenovirus modificati sta portando a risultati molto soddisfacenti. “Abbiamo identificato un vero e proprio tallone di Achille per le cellule tumorali” spiega Young ai giornalisti. “Si tratta di una sorta di interruttore molecolare che, collocato sulla superficie della cellula, può indurre le cellule a morire. Inoltre, questo interruttore provoca una risposta immunitaria dell’organismo che velocizza la regressione del cancro.”

Dettaglio di una cellula tumorale delle ovaieNormalmente, per creare reazioni nell’organismo che li ospita, i virus attaccano le cellule rilasciando alcuni geni con le “istruzioni” della malattia di cui sono portatori. Partendo da questo presupposto i ricercatori hanno pensato di seguire lo stesso stratagemma, affidabile ed efficace, dei virus per portare alle cellule geni e proteine per curare il cancro.
I primi esperimenti di laboratorio confermano l’importante scoperta effettuata dal team del prof. Young, che nei prossimi mesi inizierà i primi test clinici con un cospicuo numero di volontari, affetti da tumore alle ovaie e al fegato. Due forme di cancro molto tenaci ed estremamente variabili, in grado di diventare immuni ai farmaci chemioterapici. I virus modificati potrebbero costituire una innovativa ed efficace soluzione per questo genere di tumori. I ricercatori non escludono che, in una fase intermedia, questi virus possano fornire la chiave per rendere maggiormente efficaci i cicli di chemioterapia.

Sono numerosi i laboratori in tutto il mondo impegnati a studiare i virus per combattere il cancro. Fino ad ora solo due farmaci basati su questo principio sono stati immessi sul mercato in Cina, ma sussistono forti dubbi sulla serietà delle ricerche condotte per verificare i principi attivi.
Anche se occorreranno ancora alcuni anni prima di poter usufruire di nuovi farmaci mirati, questo genere di ricerche conferma quanto le cellule tumorali, colonizzate con più frequenza dai virus, siano molto meno in grado di difendersi rispetto alle loro “colleghe” sane.

Il DNA dalle stelle

Alcuni degli elementi indispensabili per la vita sulla Terra, come l’ossigeno, l’acqua e il carbonio sono ormai ampiamente conosciuti anche dai “non addetti ai lavori”. A questi VIP della biochimica si aggiungono altri componenti meno noti, come l’adenina, ma ugualmente importanti per l’esistenza di moltissimi organismi viventi, tra cui il genere umano. Questa molecola è un vero e proprio motore della vita, in sua assenza le nostre cellule non potrebbero avere un metabolismo corretto e lo stesso DNA non potrebbe esistere, almeno nelle forme in cui lo conosciamo oggi.

Formula di struttura dell’adeninaDa molto tempo gli scienziati cercano di capire quale possa essere stata l’origine di una molecola così importante come l’adenina. Dopo numerose ricerche, il prof. Rainer Glaser della University of Missouri-Columbia (USA) potrebbe aver trovato una risposta.
Partendo dal presupposto che la via sulla Terra sia possibile grazie a una delicatissima, e fortuita, combinazione di elementi chimici, Glaser ha ipotizzato che l’adenina non abbia avuto origine sul nostro Pianeta, ma nelle profondità del Cosmo grazie alla polvere interstellare.
L’adenina si sarebbe trasferita da queste nubi di stelle alla Terra miliardi di anni fa, durante il lento raffreddamento del Pianeta seguito alle convulse fasi legate alla sua nascita.

Le polveri interstellari potrebbero contenere molecole di adenina“L’idea che alcune molecole provengano dallo spazio non è così balzana” ha spiegato Glaser. “È possibile ritrovare complessi aggregati di molecole sugli asteroidi, compresa l’adenina. Noi sappiamo che questo componente può essere sintetizzato altrove nel sistema solare, quindi perché dovremmo precludere la possibilità che l’adenina possa essere costruita in qualsiasi punto del cosmo all’interno delle polveri interstellari?”
Questa interessante teoria, pubblicata sull’ultimo numero della blasonata rivista Astrobiology da un team di ricercatori guidato da Glaser, evidenzia come tecnicamente nulla impedisca la creazione di una struttura molecolare come quella dell’adenina nello Spazio.

terra.jpgSecondo Glaser, l’alta concentrazione di acido cianidrico (HCN) in alcune nubi di polvere interstellare potrebbe indicare la presenza di adenina. Queste zone maggiormente dense di HCN costituirebbero un punto di osservazione privilegiato per la ricerca della vita nella Via Lattea, la nostra galassia.
“Il Cosmo è naturalmente immenso, ma le aree della Via Lattea in cui sono presenti le nubi di polvere sono poche e ancora meno quelle ricche di HCN. Alcune di esse hanno le potenzialità per sintetizzare le molecole essenziali per la vita. Partendo da questo presupposto, ora dobbiamo valutare con precisione le concentrazioni di acido cianidrico che potrebbero portarci all’adenina” ha dichiarato entusiasta Glaser. “La chimica che avviene lassù nello spazio può essere molto differente dalla chimica tradizionale. La concentrazione di energia e le condizioni in cui avvengono i processi possono essere estremamente diverse da quelle terrestri. L’importante è non approcciarsi a questo nuovo filone con troppi pregiudizi.”

Chissà, forse siamo davvero figli delle stelle…

Il gene del linguaggio

Si chiama FOXP2 (“forkhead box P2”) ed è il gene che ci consente ogni giorno di chiacchierare con gli amici, parlare con il nostro capoufficio e canticchiare mentre facciamo la doccia.
Al centro di numerose ricerche negli ultimi anni, FOXP2 possiede le istruzioni per sintetizzare una proteina ritenuta fondamentale per la coordinazione tra i movimenti della bocca, gli organi di fonazione (laringe, corde vocali…) e gli impulsi elettrici inviati dal nostro cervello. Questo particolare gene divenne molto famoso sei anni fa, quando alcuni ricercatori lo reputarono responsabile di specifiche disfunzioni del linguaggio. Approfondendo le ricerche, nel 2002 si scoprì che FOXP2 rivestiva un ruolo fondamentale nello sviluppo della fonazione e del linguaggio negli individui.

I pipistrelli comunicano con gli ultrasuoniPer approfondire le conoscenze sulle incredibili potenzialità del gene FOXP2, un team di genetisti guidati da Stephen Rossiter (Queen Mary, University of London) ha esteso la ricerca ad altri membri del regno animale in grado di produrre linguaggi complessi: i pipistrelli.
Da un punto di vista meramente “fisico”, questi mammiferi utilizzano per comunicare un procedimento molto più complesso della semplice fonazione umana: l’ecolocalizzazione. Per comunicare con un “collega”, un pipistrello deve coordinare – nel medesimo istante – naso, bocca, orecchie e laringe mentre si trova in volo e utilizza gli stessi organi per orientare la propria rotta.

Organi di fonazione [fonte: progettogea.com]Analizzando 13 pipistrelli appartenenti a sei specie diverse, incluse alcune che non utilizzano l’ecolocalizzazione, il team di ricercatori è stato in grado di mappare completamente l’intera sequenza del gene FOXP2, giungendo a una sorprendente scoperta. I genetisti guidati da Rossiter hanno identificato nel FOXP2 dei pipistrelli il doppio dei cambiamenti rispetto ad altre specie animali analizzate, dimostrando un’evoluzione molto più rapida del previsto del gene del linguaggio.

La ricerca di Rossiter dimostrerebbe dunque una specifica adattabilità del gene del linguaggio, in grado di evolversi per “calibrarsi” sulle esigenze comunicative degli organismi che lo ospitano. Se confermata dalle prossime indagini di laboratorio, la scoperta del genetista britannico confermerebbe l’importanza del FOXP2 per l’evoluzione della nostra capacità di produrre suoni che oggi chiamiamo “linguaggi”.
Del resto, appena due amminoacidi (la base per costruire le proteine) differenziano il nostro gene del linguaggio da quello delle scimmie…

Quel gene da naso…

naso.jpgAttivate un piccolo “interruttore” genetico e un elemento del sudore umano profumerà di vaniglia. No non è uno scherzo e nemmeno fantascienza, bensì l’incredibile risultato di una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Un team di ricercatori, guidati dalla neurobiologa Leslie Vosshall della Rockefeller University (New York, USA), ha scoperto una particolare mutazione genetica in grado di alterare la percezione di androstenone, un particolare steroide presente nel sudore umano.
Studiando un campione di 335 volontari, il team della Vosshall ha scoperto che gli individui dotati di una sola copia del gene mutato nel loro DNA hanno percepito l’odore dell’androstenone come molto simile a quello della vaniglia. I volontari con una o due copie del gene mutato nel loro patrimonio genetico hanno invece percepito l’androstenone come qualcosa di fortemente maleodorante. Un terzo gruppo di volontari non è stato invece in grado di percepire l’odore dello steroide.

Nonostante la rilevanza della scoperta, rimangono ancora molti elementi da chiarire sulle proprietà e l’origine stessa dell’androstenone, indicato da molti ricercatori come un possibile ferormone tipico del genere umano. Molto diffusi nel regno animale, i ferormoni sono particolari “istruzioni chimiche” in grado di stimolare reazioni fisiologiche e/o comportamentali tra gli individui della medesima specie. A oggi non si hanno sufficienti elementi per affermare con certezza l’esistenza dei ferormoni anche tra li esseri umani.
Una certezza però rimane. Per la prima volta nella storia della genetica, lo studio del team della Rockefeller University ha dimostrato l’esistenza di un diretto collegamento tra i nostri geni e la nostra capacità di percepire gli odori.

L’Evoluzione applicata a uno sputo

La nostra saliva ha adattato la propria formula chimica nel corso di milioni di anni, consentendo ai nostri antenati di sopravvivere e trarre il massimo nutrimento anche dagli alimenti più complessi come l’amido. Questi i sorprendenti risultati di una recente ricerca guidata dal prof. George Perry dell’Arizona State University (USA), pubblicati recentemente sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Genetics.

dna.jpgOgni giorno il nostro organismo produce tra i 1.300 e i 1.500 cm³ di saliva per ripulire e umidificare il palato, ma soprattutto per favorire le complesse fasi della digestione. Composta prevalentemente da acqua (circa il 95%), la saliva contiene numerosi enzimi fondamentali nei processi di scissione delle sostanze chimiche che ingeriamo durante i nostri pasti.
Molti di questi enzimi, come l’amilasi, sono preposti al metabolismo dei carboidrati complessi (i polisaccaridi) come l’amido. Secondo la ricerca di Perry, nel corso dell’evoluzione umana, il nostro DNA si è profondamente modificato per adattare la nostra saliva a specifici tipi di alimentazione, trovando il modo di metabolizzare correttamente gli amidi, un’inestimabile riserva di energia per l’organismo umano.

Per trovare conferma alle sue teorie, il team di Perry ha svolto un’attenta e meticolosa ricerca sul campo, coinvolgendo centinaia di volontari gentilmente invitati a sputare per il bene della Scienza. I campioni di saliva raccolti sono stati poi analizzati in laboratorio per misurare la quantità di geni preposti alla produzione di amilasi presenti in ogni provetta.
amilasi I risultati del test hanno confermato la teoria di Perry. Il numero di geni con le istruzioni per produrre amilasi cambia considerevolmente tra DNA diversi. Ciò significa che alcuni individui sono in grado di produrre maggiori quantità di enzimi preposti alla digestione degli amidi.
Non pago del risultato ottenuto, George Perry ha sguinzagliato i propri ricercatori per tutto il mondo con l’ingrato incarico di raccogliere un’ampia varietà di sputi. Queste ulteriori analisi hanno confermato definitivamente la relazione tra abitudini alimentari e istruzioni genetiche utili per la costruzione delle amilasi. Popolazioni con una dieta ricca di amidi, come quelle della Tanzania, arrivano a possedere 7 geni specifici per le amilasi a fronte dei 5 geni posseduti dai pigmei.

Gli scimpanzé, i nostri diretti “parenti” nella catena evolutiva, posseggono solamente due geni del loro DNA preposti alla codifica delle amilasi. Secondo Perry, ciò dimostra che il progressivo adattamento del nostro DNA agli amidi si sia verificato centinaia di migliaia di anni fa e si sia acuito con l’introduzione dell’agricoltura stanziale circa 150.000 anni or sono.
La possibilità di metabolizzare completamente gli amidi rivoluzionò la nostra vita, abbattendo sensibilmente gli episodi di mortalità infantile e fornendo nuova linfa per l’evoluzione del nostro cervello. Niente male per un semplice sputo…

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