Crisi di panico causate dall’anidride carbonica

In questi ultimi anni l’anidride carbonica non gode di un’ottima reputazione. Additate come la causa principale del surriscaldamento globale, le molecole di CO2 potrebbero essere anche responsabili nell’innescare violente crisi di panico nei soggetti maggiormente sensibili all’anidride carbonica, almeno secondo un innovativo studio pubblicato questa settimana su PloS One.

Modello molecolare dell’anidride carbonica [photo credit: Wikipedia]La capacità della CO2 di innescare crisi di panico nei soggetti affetti da crisi d’ansia era già nota da tempo. Alcuni psichiatri avevano teorizzato che la reazione di panico seguente all’inalazione di anidride carbonica fosse legata a un meccanismo inconscio del nostro cervello contro un gas potenzialmente letale. La “teoria del falso allarme da soffocamento” ipotizzava l’esistenza nel nostro cervello di un sensore deputato a rilevare la CO2 che, per cause sconosciute, era maggiormente sviluppato e sensibile in alcune persone a tal punto da indurre falsi allarmi.

ansieta.jpgPartendo da questa ipotesi, lo psichiatra Eric Griez della University of Maastricht (Paesi Bassi) ha messo a punto un test per valutare con precisione la teoria del falso allarme da soffocamento, effettuando il test su persone sane mai state soggette a crisi di panico e dotate quindi di un “sensore da CO2” non ipersensibile.
Con il suo team di ricercatori, Griez ha fatto inalare a 64 volontari quattro diverse miscele di aria compressa contenente il 9%, 17.5%, 35% o lo 0% di anidride carbonica. Dopo aver inalato ogni miscela, i volontari erano invitati a indicare la loro percezione di paura e disagio in una scala da uno a cento, nonché a indicare quali dei 13 più comuni sintomi da crisi di panico avvertissero.
All’aumentare della dose di CO2, Griez ha registrato un progressivo aumento di paura e disagio nei volontari. “Lo stato di panico sembra proprio essere una condizione ansiogena che comporta un allarme da soffocamento” ha dichiarato lo psichiatra nella sua ricerca. Oltre ai sintomi di disagio e paura, i volontari hanno anche sofferto di una progressiva perdita di contatto con la realtà, descrivendo la loro esperienza come “spaventosa, imprevista e in alcuni casi terrificante”.
Secondo Griez questi risultati dimostrano quanto le sensazioni emotive di ogni individuo siano legate alla salute fisica: “Il panico, che è la forma più parossistica di ansietà, è un vero e proprio urlo soffocato per la vita”.

I risultati di questa innovativa ricerca potranno aiutare i ricercatori nello studio più accurato degli stati di panico, fornendo un nuovo strumento per attivare le crisi di ansia anche in laboratorio.
Anche se il legame diretto tra crisi di panico e reazione alla CO2 va ancora approfondito, secondo Griez gli elementi emersi dal suo lavoro potranno aiutare la ricerca di nuovi farmaci per curare l’enfisema e l’asma. I pazienti che soffrono di queste patologie, infatti, non sono sempre in grado di assumere sufficiente ossigeno attraverso la respirazione. Ciò comporta un aumento di anidride carbonica nel loro organismo che, rilevata dal “sensore di CO2” posto nel cervello, innesca violente crisi di panico legate al timore del soffocamento.

Un virus contro il cancro

Un gruppo di ricercatori inglesi è riuscito nell’ardua impresa di trasformare geneticamente un virus, che normalmente causa il raffreddore, per combattere il cancro.

Il comune virus del raffreddore in un’elaborazione computerizzataGli oncologi e genetisti che hanno partecipato al progetto sono convinti che i virus geneticamente modificati potranno dimostrarsi molto più efficaci, e mirati, dei tradizionali farmaci chemioterapici. La chemioterapia, infatti, attacca e danneggia indiscriminatamente sia le cellule sane che quelle cancerogene, causando considerevoli effetti collaterali.
Guidata dal prof. Lawrence Young (University of Birmingham, UK), la ricerca sugli adenovirus modificati sta portando a risultati molto soddisfacenti. “Abbiamo identificato un vero e proprio tallone di Achille per le cellule tumorali” spiega Young ai giornalisti. “Si tratta di una sorta di interruttore molecolare che, collocato sulla superficie della cellula, può indurre le cellule a morire. Inoltre, questo interruttore provoca una risposta immunitaria dell’organismo che velocizza la regressione del cancro.”

Dettaglio di una cellula tumorale delle ovaieNormalmente, per creare reazioni nell’organismo che li ospita, i virus attaccano le cellule rilasciando alcuni geni con le “istruzioni” della malattia di cui sono portatori. Partendo da questo presupposto i ricercatori hanno pensato di seguire lo stesso stratagemma, affidabile ed efficace, dei virus per portare alle cellule geni e proteine per curare il cancro.
I primi esperimenti di laboratorio confermano l’importante scoperta effettuata dal team del prof. Young, che nei prossimi mesi inizierà i primi test clinici con un cospicuo numero di volontari, affetti da tumore alle ovaie e al fegato. Due forme di cancro molto tenaci ed estremamente variabili, in grado di diventare immuni ai farmaci chemioterapici. I virus modificati potrebbero costituire una innovativa ed efficace soluzione per questo genere di tumori. I ricercatori non escludono che, in una fase intermedia, questi virus possano fornire la chiave per rendere maggiormente efficaci i cicli di chemioterapia.

Sono numerosi i laboratori in tutto il mondo impegnati a studiare i virus per combattere il cancro. Fino ad ora solo due farmaci basati su questo principio sono stati immessi sul mercato in Cina, ma sussistono forti dubbi sulla serietà delle ricerche condotte per verificare i principi attivi.
Anche se occorreranno ancora alcuni anni prima di poter usufruire di nuovi farmaci mirati, questo genere di ricerche conferma quanto le cellule tumorali, colonizzate con più frequenza dai virus, siano molto meno in grado di difendersi rispetto alle loro “colleghe” sane.

Il DNA dalle stelle

Alcuni degli elementi indispensabili per la vita sulla Terra, come l’ossigeno, l’acqua e il carbonio sono ormai ampiamente conosciuti anche dai “non addetti ai lavori”. A questi VIP della biochimica si aggiungono altri componenti meno noti, come l’adenina, ma ugualmente importanti per l’esistenza di moltissimi organismi viventi, tra cui il genere umano. Questa molecola è un vero e proprio motore della vita, in sua assenza le nostre cellule non potrebbero avere un metabolismo corretto e lo stesso DNA non potrebbe esistere, almeno nelle forme in cui lo conosciamo oggi.

Formula di struttura dell’adeninaDa molto tempo gli scienziati cercano di capire quale possa essere stata l’origine di una molecola così importante come l’adenina. Dopo numerose ricerche, il prof. Rainer Glaser della University of Missouri-Columbia (USA) potrebbe aver trovato una risposta.
Partendo dal presupposto che la via sulla Terra sia possibile grazie a una delicatissima, e fortuita, combinazione di elementi chimici, Glaser ha ipotizzato che l’adenina non abbia avuto origine sul nostro Pianeta, ma nelle profondità del Cosmo grazie alla polvere interstellare.
L’adenina si sarebbe trasferita da queste nubi di stelle alla Terra miliardi di anni fa, durante il lento raffreddamento del Pianeta seguito alle convulse fasi legate alla sua nascita.

Le polveri interstellari potrebbero contenere molecole di adenina“L’idea che alcune molecole provengano dallo spazio non è così balzana” ha spiegato Glaser. “È possibile ritrovare complessi aggregati di molecole sugli asteroidi, compresa l’adenina. Noi sappiamo che questo componente può essere sintetizzato altrove nel sistema solare, quindi perché dovremmo precludere la possibilità che l’adenina possa essere costruita in qualsiasi punto del cosmo all’interno delle polveri interstellari?”
Questa interessante teoria, pubblicata sull’ultimo numero della blasonata rivista Astrobiology da un team di ricercatori guidato da Glaser, evidenzia come tecnicamente nulla impedisca la creazione di una struttura molecolare come quella dell’adenina nello Spazio.

terra.jpgSecondo Glaser, l’alta concentrazione di acido cianidrico (HCN) in alcune nubi di polvere interstellare potrebbe indicare la presenza di adenina. Queste zone maggiormente dense di HCN costituirebbero un punto di osservazione privilegiato per la ricerca della vita nella Via Lattea, la nostra galassia.
“Il Cosmo è naturalmente immenso, ma le aree della Via Lattea in cui sono presenti le nubi di polvere sono poche e ancora meno quelle ricche di HCN. Alcune di esse hanno le potenzialità per sintetizzare le molecole essenziali per la vita. Partendo da questo presupposto, ora dobbiamo valutare con precisione le concentrazioni di acido cianidrico che potrebbero portarci all’adenina” ha dichiarato entusiasta Glaser. “La chimica che avviene lassù nello spazio può essere molto differente dalla chimica tradizionale. La concentrazione di energia e le condizioni in cui avvengono i processi possono essere estremamente diverse da quelle terrestri. L’importante è non approcciarsi a questo nuovo filone con troppi pregiudizi.”

Chissà, forse siamo davvero figli delle stelle…

Un interruttore per spegnere il cancro

Una nuova ricerca ha identificato una minuscola molecola in grado di rendere le cellule tumorali del seno più attive e invasive. Questa molecola potrebbe diventare presto un nuovo bersaglio per la cura del cancro.

Molecola di microRNA [photo credit: Wikipedia]Il microRNA è un polimero organico simile al DNA, ma deputato al controllo dell’attività dei geni nei processi di copia del codice genetico in numerose specie di piante e animali. Da elemento fondamentale per la regolamentazione nei processi di riproduzione cellulare, si suppone che talvolta le molecole di microRNA si tramutino in veri e propri nemici dell’organismo in cui si trovano, causando il cancro.
Nonostante non sia ancora completamente chiaro come ciò possa avvenire, recenti studi hanno evidenziato come molti microRNA si sviluppino nelle aree del genoma umano (il nostro patrimonio genetico) che determinano la predisposizione ad alcune tipologie di cancro.

Celulla cancerogena al microscopio elettronicoGuidato dal prof. Robert Weinberg, un gruppo di ricercatori del Whitehead Institute for Biomedical Research (Cambridge, Massachusetts – USA) ha indagato il ruolo del microRNA nella diffusione (metastasi) delle cellule tumorali del cancro al seno.
I ricercatori hanno così identificato un particolare tipo di microRNA, chiamato miR-10b, molto presente e attivo nelle cellule tumorali più aggressive. Bloccando l’azione del miR-10b, il gruppo di ricerca è riuscito nella complicata impresa di diminuire fino a 10 volte l’aggressività di queste cellule tumorali.
Per confermare la loro scoperta, i ricercatori hanno poi introdotto le molecole di miR-10b in alcune cellule “non invasive” del tumore al seno che, in brevissimo tempo, sono diventate altamente aggressive e in grado di produrre estese metastasi.

Pubblicata sulla rivista scientifica Nature, la ricerca condotta da Weinberg e il suo team potrebbe portare a una nuova terapia per la cura del cancro al seno.
Impegnato ad approfondire i legami tra miR-10b e alcuni geni responsabili della moltiplicazione cellulare, Robert Weinberg invita però a non lasciarsi prendere dai facili entusiasmi ricordando che “Non abbiamo ancora una conferma definitiva che intervenendo su miR-10b sia possibile invertire i processi di metastasi.”
Lo studio portato a termine dal team del Whitehead Institute for Biomedical Research ha suscitato grande interesse tra genetisti e oncologi, sempre più convinti che la strada per sconfiggere il cancro passi dalla doppia elica del DNA.

Topolini forzuti contro la distrofia

Topocorsa Dieci anni fa un team di ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora (Maryland, USA) era riuscito nella difficile impresa di creare un topolino dall’incredibile forza fisica, compiendo un balzo da gigante nella complessa ricerca dello sviluppo e della crescita degli apparati muscolari. Il risultato era stato ottenuto escludendo dal patrimonio genetico di alcuni topolini il gene con le istruzioni per produrre la miostatina, una particolare proteina in grado di regolare e limitare la crescita muscolare. I topi culturisti ottenuti da questa selezione godevano di ottima salute e avevano un ciclo di vita simile ai loro parenti più smilzi.

Sulla scia di quell’insperato successo, il team guidato dal prof. Se-Jin Lee ha proseguito alacremente le proprie ricerche, giungendo in questi ultimi giorni a risultati altrettanto sorprendenti. I ricercatori hanno infatti scoperto che stimolando la produzione della follistatina, un’altra proteina responsabile della crescita muscolare, è possibile raddoppiare ulteriormente la già strabiliante crescita muscolare scoperta dieci anni fa. “Se li osservi, i topolini paiono completamente normali, sono solamente un po’ più grossi” ha dichiarato entusiasta il prof. Lee al Guardian.

I muscoli di questi super-topi risultano essere fino a quattro volte più sviluppati rispetto al normale. Le fibre muscolari sono più grandi del 117% e racchiudono un numero maggiore di fasci muscolari, circa il 73%.
Lo scopo della ricerca non è certo finalizzato alla creazione di un team di super-ratti pugili, ma allo studio approfondito delle dinamiche che portano alla crescita e al deperimento delle fibre muscolari, causato da terribili malattie come la distrofia. Il prof. Se-Jin Lee non ha dubbi: “Questa scoperta potrà aiutarci moltissimo nello studio delle malattie muscolari degenerative e della progressiva perdita di tonicità muscolare con l’avanzamento dell’età”.

Un farmaco in grado di inibire la miostatina è già in fase di sperimentazione clinica per trattare con efficacia la distrofia muscolare, mentre è già allo studio un medicinale per aumentare la produzione di follistatina, il cui ruolo nella crescita dei muscoli è stato confermato dalla ricerca dell’università di Baltimora.
Sono circa 60 i tipi fino a oggi conosciuti di distrofia muscolare e neuromuscolare. Queste terribili patologie aggrediscono muscoli e neuroni, rendendoli progressivamente incapaci di muoversi e di trasmettere informazioni. Al momento non esiste cura e da anni numerosi ricercatori cercano di capire il meccanismo genetico, generalmente ereditario, che porta al manifestarsi della malattia.

La conferma delle incredibili proprietà della follistatina non è dunque un punto di arrivo, ma un nuovo punto di partenza. La strada da compiere è ancora lunga.

Farmaci contro l’AIDS per curare il cancro?

Schema stilizzato di una sezione del virus dell’HIV [Wikipedia]Uno dei farmaci utilizzati per curare l’AIDS potrebbe svolgere un “secondo lavoro” curando alcune tipologie di cancro. È la sorprendente conclusione cui è giunto un team di ricercatori statunitensi dopo numerose analisi di laboratorio e una sperimentazione sul campo, appena attivata su un vasto numero di volontari.

Utilizzati per interferire con il ciclo replicativo del virus dell’HIV, gli inibitori di proteasi hanno dimostrato una notevole capacità nel ridurre la velocità di crescita di alcuni tipi di cellule tumorali. Tra tutti i farmaci sperimentati, il nelfinavir si è dimostrato il principio attivo più efficace nel ridurre la corsa alla riproduzione cellulare dei tumori.
Il team di ricercatori è potuto giungere a questo promettente risultato compiendo numerosi e attenti test di laboratorio, in cui sono stati sperimentati sei differenti inibitori di proteasi utilizzati nella cura dell’AIDS. Il nelfinavir ha battuto la concorrenza, dimostrandosi il farmaco più versatile ed efficace, anche contro forme tumorali tenaci come quelle legate al cancro del seno resistenti a principi attivi come il tamoxifen e il trastuzumab.

Non è ancora completamente chiaro come il nelfinavir agisca contro le cellule tumorali. In linea teorica qualsiasi inibitore di proteasi dovrebbe interferire con la crescita cellulare, le proteasi sono infatti particolari enzimi in grado di catalizzare (aumentare la velocità) la rottura dei legami peptidici responsabili della formazione degli amminoacidi (i mattoncini base per costruire le proteine). Eppure solo alcuni principi attivi si sono dimostrati in grado di rallentare effettivamente la crescita delle cellule tumorali. I ricercatori ipotizzano che la diversa reazione sia dovuta all’esistenza di distinte proteasi per l’HIV e il cancro.

Dalla ricerca alla produzione di un nuovo farmaco contro il cancro passano, in media, almeno 15 anni, con una spesa per le analisi di laboratorio che supera abbondantemente il miliardo di dollari, con la costante incognita di non ricevere l’approvazione finale dagli enti nazionali per la sicurezza dei farmaci.
Per ovviare a questi problemi, lo studio statunitense, pubblicato sul prestigioso Clinical Cancer Research, propone l’analisi approfondita dei farmaci già in commercio e “rodati” dopo anni di utilizzo da parte dei pazienti. Il modello pare funzionare. Dopo appena un anno dall’inizio delle sperimentazioni si è infatti già giunti alle prime fasi di test su alcuni volontari affetti da diverse forme tumorali.

“L’obiettivo dei test è la sicurezza e l’assenza di effetti collaterali per i nostri pazienti” ha dichiarato il prof. Phillip A. Dennis, uno degli autori della ricerca. “Quando avremo dati certi sulla sicurezza del trattamento, potremo proseguire le nostre analisi per calibrare i principi attivi su specifiche tipologie di tumore”.
La ricerca potrebbe portare presto a nuovi e sorprendenti risultati, aprendo una nuova e innovativa strada nella ricerca contro il cancro.