Il ritorno delle sanguisughe

Dopo aver perso buona parte della loro fama nel corso dell’ultimo secolo, le sanguisughe potrebbero presto ritrovare un po’ del loro antico smalto nella scienza medica.
Non si tratta di revanscismo medievale o nostalgia per gli antichi ritrovati alchemici, ma di una attenta e scrupolosa ricerca per curare i pazienti affetti da asma e alcune malattie autoimmuni.

Lunghe appena 1.5cm, le sanguisughe sono vermi segmentatiGrandi poco più di un centimetro e mezzo, le sanguisughe sono degli anellidi (vermi segmentati) che vivono in molte zone paludose del nostro pianeta. La specie più conosciuta, e utilizzata nella medicina galenica, è la Hirudo medicinalis, un piccolo verme che cresce e si sviluppa anche alle nostre latitudini. Dotato di un potente apparato buccale “a ventosa”, questo tipo di sanguisuga aderisce alla pelle della propria preda (solitamente mammiferi di media taglia) per poi affondarvi le proprie mascelle e iniziare la suzione di sangue. Nella maggior parte dei casi la preda non si accorge minimamente della presenza della sanguisuga che, per nutrirsi di sangue, inietta un potente anticoagulante e un anestetico per impedire alla vittima di provare dolore. Quando il verme è satollo, stacca la mascella dal derma della preda e si rilascia cadere nelle acque paludose.

Il team di ricercatori guidato dal prof. David Pritchard, della University of Nottingham (Gran Bretagna), ha studiato a lungo gli effetti del particolare anestetico rilasciato dalle sanguisughe sul corpo umano, giungendo a una sorprendente conclusione.
Si è scoperto che la sostanza iniettata dalle sanguisughe, per non far provare dolore alle prede, è in grado di diminuire sensibilmente le risposte immunitarie del nostro organismo. Ciò significa che malattie autoimmuni, causate da un’eccessiva e sproporzionata reazione immunitaria, come la sclerosi multipla, la febbre da fieno e patologie asmatiche potrebbero essere trattate con successo con le sanguisughe.

Una sanguisuga in azione“Il sistema immunitario viene coinvolto dal basso livello di infezione apportato da questi vermi in un modo molto particolare, che potrebbe tramutarsi in una cura per le malattie autoimmuni” ha dichiarato Pritchard ai giornalisti.
I primi risultati dello studio del team di David Pritchard sono molto incoraggianti, ma ancora lontani da conclusioni certe e scientificamente inoppugnabili. I ricercatori hanno già condotto una serie di test per capire con quali dosi e modalità impiegare le sanguisughe sui pazienti. L’esito di questa prima sperimentazione, orientata più sulla sicurezza che sull’efficacia del trattamento, ha evidenziato un’ottima risposta da parte dei pazienti. La maggior parte degli individui trattati con sanguisughe ha affermato di aver tratto notevoli benefici dalla cura, tanto da preferire questi famelici vermi succhia sangue alle tradizionali pastiglie.

La ricerca verrà ora mirata sui pazienti affetti da asma, con test molto severi e scrupolosi per misurare l’effettiva efficacia del trattamento con sanguisughe.
Corsi e ricorsi della medicina…

Quel gene da naso…

naso.jpgAttivate un piccolo “interruttore” genetico e un elemento del sudore umano profumerà di vaniglia. No non è uno scherzo e nemmeno fantascienza, bensì l’incredibile risultato di una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Un team di ricercatori, guidati dalla neurobiologa Leslie Vosshall della Rockefeller University (New York, USA), ha scoperto una particolare mutazione genetica in grado di alterare la percezione di androstenone, un particolare steroide presente nel sudore umano.
Studiando un campione di 335 volontari, il team della Vosshall ha scoperto che gli individui dotati di una sola copia del gene mutato nel loro DNA hanno percepito l’odore dell’androstenone come molto simile a quello della vaniglia. I volontari con una o due copie del gene mutato nel loro patrimonio genetico hanno invece percepito l’androstenone come qualcosa di fortemente maleodorante. Un terzo gruppo di volontari non è stato invece in grado di percepire l’odore dello steroide.

Nonostante la rilevanza della scoperta, rimangono ancora molti elementi da chiarire sulle proprietà e l’origine stessa dell’androstenone, indicato da molti ricercatori come un possibile ferormone tipico del genere umano. Molto diffusi nel regno animale, i ferormoni sono particolari “istruzioni chimiche” in grado di stimolare reazioni fisiologiche e/o comportamentali tra gli individui della medesima specie. A oggi non si hanno sufficienti elementi per affermare con certezza l’esistenza dei ferormoni anche tra li esseri umani.
Una certezza però rimane. Per la prima volta nella storia della genetica, lo studio del team della Rockefeller University ha dimostrato l’esistenza di un diretto collegamento tra i nostri geni e la nostra capacità di percepire gli odori.

Api con l’influenza?

La CCD ha già colpito milioni di api.Continua l’ecatombe di api che, negli ultimi dodici mesi, ha sterminato quasi un quarto degli allevamenti per la produzione del miele negli Stati Uniti. A causa della CCD (Colony-collapse disorder), centinaia di migliaia di api muoiono nel giro di poche ore per una sindrome ancora completamente sconosciuta.
Nonostante numerosi ricercatori stiano studiando da mesi questo misterioso fenomeno, una soluzione definitiva pare ancora molto lontana. Come in un romanzo poliziesco, nessun indizio o sospetto viene trascurato dai detective della scienza che, prove alla mano, sono stati in grado di formulare tre distinte ipotesi su questa ecatombe di imenotteri.

1. Virus
Diagramma di un virus “standard” Secondo un team di ricercatori, della Penn State University e della Columbia University, che ha analizzato alcuni favi colpiti dalla CCD, un virus potrebbe essere la causa delle numerose morti di massa finora registrate. Analizzando il DNA di numerosi esemplari deceduti, i ricercatori hanno isolato un potente agente patogeno noto come IAPV, un virus in grado di indurre forti paralisi negli organismi che infetta. In nove esemplari di api decedute su dieci è stata riscontrata con certezza la presenza dell’IAPV. Se non la causa principale, il virus rappresenterebbe comunque una causa indiretta della CCD.
Altri team di ricercatori hanno contestato duramente le conclusioni cui è giunto il gruppo di ricerca della Penn State University e della Columbia University. Secondi i detrattori di questa teoria, non sussisterebbe alcun legame tra la CCD e il virus IAPV, giunto negli States dall’Australia, dove non si è ancora registrato alcun caso di morti sospette nei favi.

2. Parassiti
Due esemplari di Varroa destructor, lo spietato acaro emofago La causa delle numerose morti negli allevamenti di api potrebbe essere riconducibile a un terribile acaro (un microscopico parassita), noto come Varroa destructor, che si nutre del sangue delle api. Conosciuti fin dal 1987, questi acari hanno dimostrato un’incredibile velocità nel diffondersi e colonizzare interi alveari. I loro morsi non sono in grado di uccidere le api, ma aprono profonde ferite che lasciano le povere fabbricatrici di miele alla mercé di numerose e letali infezioni. Una particolare specie di acaro è addirittura in grado di attaccare il sistema respiratorio delle api, l’infezione della loro minuscola trachea equivale a una morte certa.
I detrattori di questa teoria vedono con molto scetticismo un legame tra la CCD e i temibili acari delle api. Se la Varroa destructor fosse davvero la causa, perché la CCD non si presentò già vent’anni fa? È dunque più probabile che questo temibile acaro contribuisca a debellare il sistema immunitario delle api che – maggiormente vulnerabili – subirebbero più rapidamente la misteriosa contaminazione da CCD.

3. Pesticidi
Formula di struttura dell’Imidacloprid Molti ricercatori ipotizzano che alcuni pesticidi possano rivestire un ruolo fondamentale nell’intricato rebus della CCD. Il sospettato numero uno è l’Imidacloprid, un potente principio attivo messo a punto dalla Bayer. Ottimo disinfestatore di parassiti, questo pesticida influirebbe molto negativamente sulla vita delle api, indebolendole e portandole lentamente alla morte. Alcuni paesi, come la Francia, hanno disposto un fermo divieto all’utilizzo dell’Imidacloprid, nonostante la Bayer abbia escluso categoricamente qualsiasi legame tra il suo pesticida e la CCD.
I detrattori partono da un dato certo e, apparentemente, inoppugnabile per smontare questa teoria. Nonostante il divieto di utilizzo dell’Imidacloprid risalga al 1999, in Francia la popolazione di api si è ugualmente ridotta. Ulteriori ricerche hanno evidenziato come la CCD si sia sviluppata nelle più disparate condizioni ambientali, anche in totale assenza dei pesticidi.

La soluzione per questa insolita e inquietante “pandemia” tra imenotteri pare essere ancora molto lontana. Tra tante incertezze, l’unica cosa certa rimane la fine amara di tanti produttori di miele…

“Vampiri” allo zucchero

Immaginate di poter mangiare torte, dolci, budini e qualsiasi cibo preparato con lo zucchero senza ingrassare di nemmeno un grammo. Fantascienza? Per noi sicuramente, ma per una particolare specie di mammifero no.

Metabolismo umano [Wikipedia]La maggior parte dei mammiferi, esseri umani compresi, ottiene l’energia per il proprio sostentamento dal metabolismo delle riserve di grasso e glicogeno (una macromolecola del glucosio, il composto organico più diffuso in natura) combinate con i cibi assimilati durante i pasti. Banalizzando molto, possiamo immaginare gli organismi dei mammiferi come complesse stufe, in cui le proteine, i carboidrati e i lipidi sono la legna da bruciare per mantenere sempre accesa ed efficiente la stufa. Quando la quantità di legna accumulata supera la legna effettivamente bruciata, l’organismo accatasta il legname in esubero creando una riserva per i possibili momenti di “magra”.
Questa efficienza energetica è alla base della sopravvivenza di tutti i mammiferi che, in misura naturalmente diversa da specie a specie, possono sempre fare affidamento sulle energie immagazzinate (generalmente sotto forma di lipidi, cioè grassi) e non ancora spese. Ma, come spesso accade, anche in questo caso un’eccezione conferma la regola.

Photo credit: Max Planck Research Centre for Ornithology/York WinterIn natura esiste infatti un mammifero “sprecone”, dotato di un organismo incapace di conservare a lungo le riserve di grasso: il pipistrello del nettare. Questo particolare chirottero ha una dieta molto speciale, povera di grassi e proteine, ma incredibilmente ricca di carboidrati semplici come gli zuccheri. Per mantenersi in volo, questo mammifero consuma quotidianamente ingenti quantità di energia e, non potendo fare affidamento su alcuna scorta, metabolizza direttamente gli zuccheri che assimila svolazzando di fiore in fiore.
Incuriositi da questa singolare peculiarità, un gruppo di ricercatori, guidati dal prof. C. C. Voigt e dal prof. J. R. Speakman, ha indagato le zuccherose abitudini alimentari del chirottero del nettare, arrivando a conclusioni davvero sensazionali.

I ricercatori hanno scoperto che il metabolismo del pipistrello del nettare ha la capacità di adattare il proprio ciclo al tipo di carboidrati semplici assunti durante i pasti. Nutriti in laboratorio con fruttosio (un monosaccaride a lento assorbimento), glucosio o saccarosio (il comune zucchero da tavola) i chirotteri si sono dimostrati in grado di calibrare i propri pasti in funzione della velocità di assorbimento dei tre tipi di carboidrati messi a disposizione dai ricercatori.
Il team di ricerca ha inoltre scoperto che, ogni giorno, i pipistrelli del nettare consumano il 50% delle loro esigue riserve di grasso. Un consumo sorprendentemente alto, mai riscontrato in altre specie di mammiferi.

Saccarosio, lo “zucchero da tavola”Nonostante i chirotteri del nettare consumino ogni giorno la metà dei grassi a loro disposizione, le rimanenti riserve di energia sono perfettamente calcolate per mantenere in vita i pipistrelli nella dozzina di ore di riposo diurno. Questi mammiferi dimostrano quindi una strabiliante velocità nel metabolizzare e trasformare gli zuccheri, senza pari in tutta la famiglia dei mammiferi.
Pubblicato sull’ultimo numero della prestigiosa rivista scientifica Functional Ecology, lo studio di Voigt e Speakman apre nuove e inesplorate vie per la ricerca sul metabolismo dell’insulina e l’insorgenza del diabete nell’uomo. Le incredibili doti metaboliche del chirottero del nettare potranno costituire un valido modello per trovare nuove ed efficaci cure per gli oltre 230 milioni di persone che in tutto il mondo soffrono di questa invalidante patologia.

Tornare a ricordare

Microscopio Tra le tante malattie degenerative il morbo di Alzheimer è sicuramente una delle più devastanti non solo per chi ne è affetto, ma anche per famigliari e amici che si vedono trasformati in sconosciuti dal malato che non è più in grado di riconoscerli.
L’Alzheimer distrugge progressivamente le cellule cerebrali, costringendo chi ne è affetto a un lento e inesorabile oblio tale da precludere qualsiasi possibilità di svolgere una vita normale. In Italia sono circa mezzo milione le persone affette da questo terribile morbo, che colpisce 18 milioni di individui in tutto il mondo.

Dopo numerosi anni di studio, un team di scienziati della St Andrew’s University (Gran Bretagna) è finalmente riuscito nella difficile impresa di fermare gli effetti degenerativi dell’Alzheimer costringendo la stessa malattia a recedere. Naturalmente questo incredibile risultato è stato ottenuto in laboratorio, occorreranno ancora alcuni anni prima che questa cura sperimentale possa diventare un farmaco per il trattamento precoce della malattia.
La chiave del successo di questa nuova cura risiede in una particolare proteina, progettata e sintetizzata ad hoc in laboratorio, basata sulla struttura tridimensionale di altre due proteine responsabili dei devastanti effetti degenerativi dell’Alzheimer. “Incollandosi” a una di queste due proteine, la proteina inibitrice ideata dal team di scienziati inglesi impedisce alle proteine del morbo di unirsi e di iniziare la complessa catena biochimica che porta alla progressiva morte delle cellule cerebrali dei malati di Alzheimer.

“Il nostro lavoro di ricerca non si ferma” ha dichiarato con soddisfazione Frank Gunn-Moore, uno degli artefici della scoperta, al Guardian. “Continueremo lo sviluppo della nostra proteina inibitrice fino a ottenere un farmaco. Occorreranno ancora alcuni anni di sperimentazione, ma la strada è ormai tracciata”.
La cura contro l’oblio potrebbe dunque essere più vicina di quanto immaginiamo.

L’Evoluzione applicata a uno sputo

La nostra saliva ha adattato la propria formula chimica nel corso di milioni di anni, consentendo ai nostri antenati di sopravvivere e trarre il massimo nutrimento anche dagli alimenti più complessi come l’amido. Questi i sorprendenti risultati di una recente ricerca guidata dal prof. George Perry dell’Arizona State University (USA), pubblicati recentemente sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Genetics.

dna.jpgOgni giorno il nostro organismo produce tra i 1.300 e i 1.500 cm³ di saliva per ripulire e umidificare il palato, ma soprattutto per favorire le complesse fasi della digestione. Composta prevalentemente da acqua (circa il 95%), la saliva contiene numerosi enzimi fondamentali nei processi di scissione delle sostanze chimiche che ingeriamo durante i nostri pasti.
Molti di questi enzimi, come l’amilasi, sono preposti al metabolismo dei carboidrati complessi (i polisaccaridi) come l’amido. Secondo la ricerca di Perry, nel corso dell’evoluzione umana, il nostro DNA si è profondamente modificato per adattare la nostra saliva a specifici tipi di alimentazione, trovando il modo di metabolizzare correttamente gli amidi, un’inestimabile riserva di energia per l’organismo umano.

Per trovare conferma alle sue teorie, il team di Perry ha svolto un’attenta e meticolosa ricerca sul campo, coinvolgendo centinaia di volontari gentilmente invitati a sputare per il bene della Scienza. I campioni di saliva raccolti sono stati poi analizzati in laboratorio per misurare la quantità di geni preposti alla produzione di amilasi presenti in ogni provetta.
amilasi I risultati del test hanno confermato la teoria di Perry. Il numero di geni con le istruzioni per produrre amilasi cambia considerevolmente tra DNA diversi. Ciò significa che alcuni individui sono in grado di produrre maggiori quantità di enzimi preposti alla digestione degli amidi.
Non pago del risultato ottenuto, George Perry ha sguinzagliato i propri ricercatori per tutto il mondo con l’ingrato incarico di raccogliere un’ampia varietà di sputi. Queste ulteriori analisi hanno confermato definitivamente la relazione tra abitudini alimentari e istruzioni genetiche utili per la costruzione delle amilasi. Popolazioni con una dieta ricca di amidi, come quelle della Tanzania, arrivano a possedere 7 geni specifici per le amilasi a fronte dei 5 geni posseduti dai pigmei.

Gli scimpanzé, i nostri diretti “parenti” nella catena evolutiva, posseggono solamente due geni del loro DNA preposti alla codifica delle amilasi. Secondo Perry, ciò dimostra che il progressivo adattamento del nostro DNA agli amidi si sia verificato centinaia di migliaia di anni fa e si sia acuito con l’introduzione dell’agricoltura stanziale circa 150.000 anni or sono.
La possibilità di metabolizzare completamente gli amidi rivoluzionò la nostra vita, abbattendo sensibilmente gli episodi di mortalità infantile e fornendo nuova linfa per l’evoluzione del nostro cervello. Niente male per un semplice sputo…

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