Dal vaccino per il Vaiolo una nuova arma contro il cancro

Una particolare forma del virus del Vaiolo, utilizzato come vaccino, rappresenta una nuova speranza per la cura di numerose tipologie di cancro. Recenti ricerche di laboratorio hanno dimostrato l’efficacia del vaccino del vaiolo nel mantenere sotto controllo un tipo di carcinoma letale per i tessuti del fegato.

Virus del vaioloDa una decina di anni, scienziati e ricercatori selezionano geneticamente alcuni virus in grado di individuare e distruggere le cellule tumorali in modo altamente selettivo. Sulla scia del successo ottenuto da un gruppo di ricercatori cinesi con il virus ONYX-015, il virologo Stephen Thorne della University of Pittsburgh (Pennsylvania – USA) ha avviato l’innovativo studio sul virus del vaiolo.
Sotto la sua attenta guida, un team di ricercatori ha rimosso una coppia di geni dal vaccino di un virus, indispensabili per la crescita di quest’ultimo all’interno delle cellule. In questo modo il virus può crescere solamente nelle cellule tumorali in cui è stato iniettato, senza contagiare le cellule sane. Oltre a rimuovere una coppia di geni, i ricercatori hanno provveduto a inserire nuove istruzioni genetiche all’interno del virus. Questo gene aggiuntivo è in grado di stimolare una violenta reazione del sistema immunitario, che riconosce e attacca le cellule tumorali infettate con il virus.

Tumore al fegato prima e dopo il trattamento con il vaccino modificato del virus del vaiolo. In quattro settimane la massa tumorale è diminuita a meno della metà [credit: Stephen Thorne/University of Pittsburgh | via Science]I risultati, a dir poco sorprendenti, ottenuti in laboratorio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Clinical Investigation, destando molto interesse nella comunità scientifica.
Le cellule tumorali potrebbero essere eliminate completamente dagli organismi utilizzando dosi controllate del virus combinate alle procedure farmacologiche già in uso. Ottenuto il via libera dalla Food and Drug Administration, il prof. Thorne potrà iniziare entro pochi mesi le prime sperimentazioni cliniche su un cospicuo numero di volontari. Dimostrare la sicurezza del trattamento sarà infatti il primo passo necessario per proseguire la ricerca. I test di laboratorio hanno dimostrato come il vaccino del vaiolo non comporti alcun rischio per le cellule sane, ma per precauzione si pensa di ricorrere ugualmente all’utilizzo di immunizzanti per arginare eventuali reazioni al virus.

Quello che per secoli è stato un vero incubo per l’uomo, con decine di milioni di decessi, potrebbe ora trasformarsi in una nuova àncora di salvezza per l’epidemia del nuovo millennio.

Troppo zucchero nei neuroni all’origine di malattie neurodegenerative

Considerato come un fenomeno molto salutare per le cellule, l’accumulo di lunghe catene di glucosio (glicogeno) può sensibilmente danneggiare le strutture neuronali. Pubblicata sull’ultimo numero di Nature Neuroscience, questa inaspettata scoperta è stata resa possibile dall’assiduo lavoro di un team di ricercatori spagnoli guidati dal prof. Joan J. Guinovart, direttore dell’Istituto di ricerca per la biomedicina di Barcellona, e dal prof. Santiago Rodríguez de Córdoba del Centro Superior de Investigaciones Cientificas (CSIC).

Struttura chimica del glicogeno, segmento [credit: Wikipedia]Il team di ricerca ha scoperto questa particolare reazione dei neuroni agli zuccheri analizzando la malattia di Lafora, una rara patologia che causa un’irreversibile degenerazione delle cellule neuronali negli adolescenti e per la quale non esiste ancora una specifica cura. Il morbo di Lafora si presenta generalmente con manifestazioni simili all’epilessia tra i 10 e 17 anni, causando una risposta inesatta dei muscoli alle stimolazioni nervose. In appena dieci anni questa terribile malattia paralizza completamente chi ne è affetto, riducendolo a un perenne stato vegetativo. La malattia è ereditaria ed è causata da una coppia di proteine, laforina e malina, che fanno sviluppare alcuni “noduli” nei neuroni, compromettendone il funzionamento.

“Noduli” neuronali causati dalla malattia di Lafora [credit: Louis Requena, M.D.]Grazie ai ricercatori spagnoli è stato possibile identificare, per la prima volta, i meccanismi che innescano il processo neurodegenerativo. “Abbiamo notato che la laforina e la malina agiscono in coppia come guardiani dei livelli di glicogeno nei neuroni, disgregandosi per mantenerne costanti i valori” spiega Joan J. Guinovart nella sua ricerca. “Quando i geni preposti alla creazione delle guardie sono danneggiati, accade che le due proteine non si disgregano più, causando un conseguente aumento di glicogeno che danneggia i neuroni fino a portarli a una precoce morte programmata (apoptosi).
Le incoraggianti conclusioni della ricerca potrebbero portare presto a una cura per la terribile malattia di Lafora. I ricercatori contano di identificare una molecola in grado di inibire la sintesi di glicogeno nei neuroni.
La scoperta sui meccanismi di accumulo di glicogeno e degenerazione nucleare potrebbe portare, inoltre, alla creazione di nuovi e più mirati farmaci non solo per arginare i danni delle malattie neurodegenerative, ma anche per curarle in maniera definitiva. La strada da compiere è certamente ancora molto lunga, ma un primo importantissimo punto è stato messo a segno.

Monossido di Carbonio, da veleno letale a medicinale

Nonostante la sua cattiva reputazione, il monossido di carbonio (CO) potrebbe rivelarsi un ottimo elemento per salvare vite umane e curare numerose patologie.
Un gruppo di chimici dell’University of Sheffield (UK) ha scoperto un metodo innovativo per utilizzare in maniera mirata minuscole dosi di CO per curare i pazienti che hanno da poco subito operazioni cardiache, trapianti d’organo o che soffrono di ipertensione.

Monossido di CarbonioAssunto in dosi massicce il monossido di carbonio può rivelarsi letale, ma in piccole quantità può aiutare a ridurre le infiammazioni, ripristinare il corretto lume (l’ampiezza) delle arterie, incrementare il flusso sanguigno, prevenire la formazione di coaguli e reprimere le dinamiche di rigetto che spesso causano gravi problemi a chi ha subito un trapianto d’organi.
I ricercatori britannici hanno sviluppato un’innovativa molecola solubile in acqua che, non appena viene ingerita o iniettata per endovenosa, rilascia in maniera sicura e controllata minuscole quantità di CO all’interno dell’organismo.
Il ruolo svolto dal monossido di carbonio nel regolare il nostro sistema immunitario era già noto da una decina di anni, ma nessuno era ancora riuscito a sviluppare una via affidabile e sicura per somministrare CO ai pazienti. Il metodo per inalazione, utilizzato da diversi anni, esponeva i pazienti a numerosi effetti collaterali e metteva anche a rischio lo stesso personale sanitario. Ora, per la prima volta, grazie alla chimica sarà possibile sviluppare nuovi formaci in grado di rilasciare CO in maniera controllata e sicura.

Prof. Brian Mann, coordinatore del team di ricercatori sul CO“La nostra molecola si dissolve completamente nell’acqua, è quindi di semplicissima somministrazione ed è in grado di raggiungere molto velocemente il flusso sanguigno” ha dichiarato il prof. Brian Mann, che ha coordinato il team di ricercatori. “Oltre a poter creare molecole sicure in grado di rilasciare CO, potremo anche sviluppare strutture molecolari per terapie estremamente mirate che interesseranno unicamente le parti dell’organismo da curare”.
Le molecole ideate dal gruppo di ricercatori della University of Sheffield sono costituite da gruppi carbonilici legati a metalli come il rutenio, il ferro e il manganese, già ampiamente testati e utilizzati nei trattamenti sanitari. Queste molecole possono essere progettate per rilasciare monossido di carbonio in periodi che variano da 30 minuti a un paio d’ore, a seconda delle necessità legate alle condizioni del paziente.

Entro due anni i ricercatori intendono iniziare i primi test clinici, fondamentali per verificare l’efficacia della loro scoperta, resa nota dall’Engineering and Physical Sciences Research Council (EPSRC), che potrebbe tradursi in una nuova generazione di medicinali in circa cinque anni.
Queste innovative molecole stanno destando molto interesse in ambiente scientifico e sanitario. Le loro incredibili potenzialità potrebbero contribuire a ridurre sensibilmente i tempi di recupero dopo un’operazione chirurgica, alleggerendo e ottimizzando considerevolmente il carico di lavoro per ospedali e personale medico.

Diagnosticare l’Alzheimer dalle proteine del sangue

Una ricerca condotta su alcuni pazienti affetti da Alzheimer ha rilevato l’esistenza di alcune specifiche proteine nel sangue che potrebbero essere utilizzate per diagnosticare il “morbo dell’oblio” in maniera precoce ed efficace.
L’unico metodo finora utilizzato dai medici per diagnosticare l’Alzheimer prevede una serie di analisi mirate ad escludere altre possibili patologie. A oggi, infatti, non esiste un test definitivo per questa terribile malattia, se non l’analisi post mortem dei tessuti cerebrali e dei marcatori del morbo.

Area in cui è riscontrabile la presenza dell’Alzheimer nel cerebro umanoDopo numerosi anni di studio, il neurologo Tony Wyss-Coray (Stanford University School of Medicine in California) ha recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Medicine i sorprendenti risultati delle sue ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer, la “firma” del morbo riscontrabile negli individui affetti dalla malattia.
Grazie all’impegno del suo gruppo di ricercatori, Wyss-Coray ha identificato una combinazione particolare di 18 proteine in grado di indicare la presenza – anche nei primissimi stadi – del morbo di Alzheimer. Se i prossimi test confermeranno l’importante scoperta, sarà possibile diagnosticare la malattia con un banalissimo esame del sangue. Le persone positive al test potrebbero così iniziare da subito le terapie, oggi sempre più mirate, tese a rallentare i devastanti effetti dell’Alzheimer.

Neuroni sani a confronto con neuroni danneggiati dal morbo di Alzheimer [photo credit: GHI]Per raggiungere questo promettente risultato, i ricercatori guidati da Wyss-Coray hanno esaminato le proteine presenti in 259 campioni di sangue, provenienti da individui affetti o meno dalla malattia. Il team di ricerca ha poi focalizzato la propria attenzione sulle 120 proteine maggiormente utilizzate dalle cellule per comunicare tra loro, e su un gruppo di 18 aggregati proteici rinominato communicode. “Abbiamo pensato che queste proteine, presenti nel sangue, potessero portare qualche traccia dal cervello sulla presenza o meno della malattia” ha dichiarato un entusiasta Wyss-Coray.
I ricercatori hanno notato che un set di 18 proteine “addette alle comunicazioni” si presentavano con livelli di concentrazione molto differenti tra gli individui affetti da Alzheimer e tra quelli sani. Comparando i risultati dei test effettuati su 20 pazienti, cui era già stato diagnosticato il morbo, il team di ricerca ha dimostrato come la forte concentrazione del set di 18 proteine sia un indicatore molto affidabile per rilevare la presenza dell’Alzheimer.

La scoperta di Wyss-Coray potrebbe condurre presto a un nuovo test per verificare, in maniera molto più affidabile e diretta, la presenza dell’Alzheimer. La diagnosi precoce del morbo è fondamentale per arginare da subito i suoi effetti devastanti.
Nonostante ad oggi non esista una cura definitiva per il morbo, i numerosi protocolli terapeutici affinati in questi ultimi anni consentono di rallentare drasticamente la corsa dell’Alzheimer che porta chi ne è affetto a un inesorabile oblio.

Scoperto nuovo meccanismo dell’udito

Un gruppo di ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology – USA) ha scoperto un nuovo meccanismo dell’udito che rivoluziona sostanzialmente le conoscenze sull’orecchio interno. Questo nuovo meccanismo potrebbe essere molto utile non solo per spiegare l’incredibile capacità del nostro orecchio di distinguere con estrema precisione suoni e rumori, ma anche per sviluppare sistemi più efficienti per il recupero dell’udito.

Schema della struttura dell’orecchio interno [photo credit: Wikipedia]La ricerca, pubblicata qualche giorno fa sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, è stata guidata dal prof. Dennis M. Freeman del MIT che ha evidenziato come la membrana tettoriale (una sostanza gelatinosa contenuta nella coclea) rivesta un ruolo molto più importante di quanto immaginato nel percepire e distinguere i suoni.
La membrana tettoriale è infatti in grado di ricevere e trasmettere impulsi in numerose zone della coclea attraverso particolari onde, del tutto diverse da quelle già conosciute e comunemente associate all’udito.
Per oltre un secolo si è ipotizzato che all’interno della coclea le onde sonore fossero trasformate e condotte attraverso una particolare struttura chiamata membrana basilare, presente nel canale cocleare. Il team di ricercatori del MIT ha invece scoperto che un diverso tipo di onda, tenuto da sempre in scarsa considerazione per la sua particolare conformazione, è ugualmente in grado di trasmettere i suoni. Questa onda agisce sulla membrana tettoriale, una parte della coclea collocata al di sopra delle cellule sensoriali dell’udito deputate a ricevere e trasmettere informazioni al cervello. Secondo i ricercatori del MIT, questo secondo tipo di onda rivestirebbe un ruolo fondamentale nel trasmettere gli impulsi sonori alle cellule dell’udito.

Spaccato dell’apparato cocleare [photo credit: Wikipedia]Banalizzando molto, possiamo dire che il nostro orecchio interno è in grado di trasformare meccanicamente le onde sonore in due tipi differenti di onde, caratterizzate da un diverso modo di muoversi nello spazio. Queste onde possono interagire per stimolare le cellule dell’udito e migliorarne la sensibilità, tanto da consentirci di udire suoni molto deboli o disturbati.
L’interazione tra i due tipi di onde sonore, create meccanicamente dal nostro orecchio interno, potrebbe essere la chiave per spiegare l’incredibile fedeltà con cui riusciamo a riconoscere suoni e rumori.
“Sappiamo che l’orecchio umano è estremamente sensibile – ha dichiarato il prof. Freeman – ma non sappiamo ancora quale meccanismo consenta al nostro udito di essere così preciso. La nostra ricerca ha però evidenziato, per la prima volta, un nuovo meccanismo cui nessuno aveva ancora pensato, che potrebbe aprirci nuove strade per risolvere l’enigma dell’udito”.

La scoperta del prof. Freeman e del suo team di ricerca ha evidenziato quanto la conoscenza della struttura intima del nostro orecchio sia ancora da approfondire e studiare. L’inaspettato ruolo della membrana tettoriale nella trasmissione e nel riconoscimento delle onde sonore potrà portare a una nuova generazione di apparati cocleari artificiali, maggiormente sensibili e affidabili, per strappare dall’oblio del silenzio migliaia di persone affette da gravi patologie uditive.

La nostra memoria “chiude” appena ci addormentiamo

Inutile sussurrare parole dolci alla vostra metà appena si è addormentata. Un gruppo di neurologi ha recentemente dimostrato che le aree del cervello deputate a recepire il linguaggio e a conservarne un ricordo si disattivano nell’imminenza delle prime fasi del sonno. La ricerca, effettuata su pazienti sedati con un particolare principio attivo, verrà ora estesa al sonno “naturale” e non indotto.

sleep.jpgUn gruppo di ricercatori guidati da Matt Davis, del Medical Research Council Cognition and Brain Sciences Unity (Cambridge, UK), ha studiato le reazioni di 12 volontari sotto l’effetto di un particolare anestetico, il Propofol, in grado di indurre differenti livelli di sonnolenza a seconda delle dosi somministrate.
Durante i test, ai volontari addormentati sono stati proposti brani musicali e discorsi registrati, mentre una particolare strumentazione registrava le loro onde cerebrali. Le parti del cervello deputate al riconoscimento del linguaggio hanno mostrato una discreta attività, ma le aree in cui le parole vengono interpretate e catalogate si sono dimostrate del tutto inattive, così come quelle zone deputate alla formazione di un ricordo legato a un discorso.

Attività cerebrali registrate in un volontario cosciente e poi sedato [photo credit: MRC]I risultati dei test suggeriscono che, durante le prime fasi di sonno, il cervello disattivi i complessi meccanismi legati alle aree del linguaggio e della memoria, rendendo praticamente impossibile il ricordo di ciò che si è ascoltato nell’imminenza dell’assopimento.
Pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy Sciences, la ricerca ha anche dimostrato come la capacità di comprendere un discorso possa essere completamente compromessa con bassissimi livelli di sedazione. Ciò confermerebbe l’esperienza molto comune dei vuoti di memoria legati ai discorsi ascoltati prima di addormentarsi e dimenticati al mattino.

La scoperta effettuata dal team di ricerca guidato da Davis apre nuovi interessanti campi di ricerca sulle complesse attività cerebrali coinvolte nei cicli del sonno, ma anche nella ricerca di nuovi principi attivi e dosaggi per gli anestetici utilizzati in ambito clinico.
Gli innovativi risultati ottenuti potranno poi essere utilizzati per comprendere con maggior precisione l’esperienza cognitiva delle persone in stato vegetativo, aiutando i neurologi a comprendere quali aree del ricordo e della percezione rimangano attive nelle fasi di coma.