Quel gene da naso…

naso.jpgAttivate un piccolo “interruttore” genetico e un elemento del sudore umano profumerà di vaniglia. No non è uno scherzo e nemmeno fantascienza, bensì l’incredibile risultato di una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Un team di ricercatori, guidati dalla neurobiologa Leslie Vosshall della Rockefeller University (New York, USA), ha scoperto una particolare mutazione genetica in grado di alterare la percezione di androstenone, un particolare steroide presente nel sudore umano.
Studiando un campione di 335 volontari, il team della Vosshall ha scoperto che gli individui dotati di una sola copia del gene mutato nel loro DNA hanno percepito l’odore dell’androstenone come molto simile a quello della vaniglia. I volontari con una o due copie del gene mutato nel loro patrimonio genetico hanno invece percepito l’androstenone come qualcosa di fortemente maleodorante. Un terzo gruppo di volontari non è stato invece in grado di percepire l’odore dello steroide.

Nonostante la rilevanza della scoperta, rimangono ancora molti elementi da chiarire sulle proprietà e l’origine stessa dell’androstenone, indicato da molti ricercatori come un possibile ferormone tipico del genere umano. Molto diffusi nel regno animale, i ferormoni sono particolari “istruzioni chimiche” in grado di stimolare reazioni fisiologiche e/o comportamentali tra gli individui della medesima specie. A oggi non si hanno sufficienti elementi per affermare con certezza l’esistenza dei ferormoni anche tra li esseri umani.
Una certezza però rimane. Per la prima volta nella storia della genetica, lo studio del team della Rockefeller University ha dimostrato l’esistenza di un diretto collegamento tra i nostri geni e la nostra capacità di percepire gli odori.

Api con l’influenza?

La CCD ha già colpito milioni di api.Continua l’ecatombe di api che, negli ultimi dodici mesi, ha sterminato quasi un quarto degli allevamenti per la produzione del miele negli Stati Uniti. A causa della CCD (Colony-collapse disorder), centinaia di migliaia di api muoiono nel giro di poche ore per una sindrome ancora completamente sconosciuta.
Nonostante numerosi ricercatori stiano studiando da mesi questo misterioso fenomeno, una soluzione definitiva pare ancora molto lontana. Come in un romanzo poliziesco, nessun indizio o sospetto viene trascurato dai detective della scienza che, prove alla mano, sono stati in grado di formulare tre distinte ipotesi su questa ecatombe di imenotteri.

1. Virus
Diagramma di un virus “standard” Secondo un team di ricercatori, della Penn State University e della Columbia University, che ha analizzato alcuni favi colpiti dalla CCD, un virus potrebbe essere la causa delle numerose morti di massa finora registrate. Analizzando il DNA di numerosi esemplari deceduti, i ricercatori hanno isolato un potente agente patogeno noto come IAPV, un virus in grado di indurre forti paralisi negli organismi che infetta. In nove esemplari di api decedute su dieci è stata riscontrata con certezza la presenza dell’IAPV. Se non la causa principale, il virus rappresenterebbe comunque una causa indiretta della CCD.
Altri team di ricercatori hanno contestato duramente le conclusioni cui è giunto il gruppo di ricerca della Penn State University e della Columbia University. Secondi i detrattori di questa teoria, non sussisterebbe alcun legame tra la CCD e il virus IAPV, giunto negli States dall’Australia, dove non si è ancora registrato alcun caso di morti sospette nei favi.

2. Parassiti
Due esemplari di Varroa destructor, lo spietato acaro emofago La causa delle numerose morti negli allevamenti di api potrebbe essere riconducibile a un terribile acaro (un microscopico parassita), noto come Varroa destructor, che si nutre del sangue delle api. Conosciuti fin dal 1987, questi acari hanno dimostrato un’incredibile velocità nel diffondersi e colonizzare interi alveari. I loro morsi non sono in grado di uccidere le api, ma aprono profonde ferite che lasciano le povere fabbricatrici di miele alla mercé di numerose e letali infezioni. Una particolare specie di acaro è addirittura in grado di attaccare il sistema respiratorio delle api, l’infezione della loro minuscola trachea equivale a una morte certa.
I detrattori di questa teoria vedono con molto scetticismo un legame tra la CCD e i temibili acari delle api. Se la Varroa destructor fosse davvero la causa, perché la CCD non si presentò già vent’anni fa? È dunque più probabile che questo temibile acaro contribuisca a debellare il sistema immunitario delle api che – maggiormente vulnerabili – subirebbero più rapidamente la misteriosa contaminazione da CCD.

3. Pesticidi
Formula di struttura dell’Imidacloprid Molti ricercatori ipotizzano che alcuni pesticidi possano rivestire un ruolo fondamentale nell’intricato rebus della CCD. Il sospettato numero uno è l’Imidacloprid, un potente principio attivo messo a punto dalla Bayer. Ottimo disinfestatore di parassiti, questo pesticida influirebbe molto negativamente sulla vita delle api, indebolendole e portandole lentamente alla morte. Alcuni paesi, come la Francia, hanno disposto un fermo divieto all’utilizzo dell’Imidacloprid, nonostante la Bayer abbia escluso categoricamente qualsiasi legame tra il suo pesticida e la CCD.
I detrattori partono da un dato certo e, apparentemente, inoppugnabile per smontare questa teoria. Nonostante il divieto di utilizzo dell’Imidacloprid risalga al 1999, in Francia la popolazione di api si è ugualmente ridotta. Ulteriori ricerche hanno evidenziato come la CCD si sia sviluppata nelle più disparate condizioni ambientali, anche in totale assenza dei pesticidi.

La soluzione per questa insolita e inquietante “pandemia” tra imenotteri pare essere ancora molto lontana. Tra tante incertezze, l’unica cosa certa rimane la fine amara di tanti produttori di miele…

Maratona migratoria

Limosa lapponicaImmaginate di mettervi a correre e, come nella stralunata avventura di Forrest Gump, non fermarvi più per almeno una settimana. La limosa lapponica, un uccello acquatico appartenente alla famiglia dei gabbiani, ha recentemente sorpreso un gruppo di ricercatori compiendo una sorprendente migrazione dall’Alaska alla Nuova Zelanda in un unico interminabile viaggio.

La migrazione della Limosa Lapponica prevede un tragitto di 11.500 kmGrazie ad alcuni rilevatori satellitari posizionati su sedici esemplari di limosa lapponica, un team di ricercatori della Massey University (Nuova Zelanda) ha potuto tracciare la più lunga migrazione “non-stop” mai registrata nella storia.
I sistemi di posizionamento satellitare, applicati agli esemplari campione, hanno inoltre messo in evidenza la durissima rotta seguita da questi uccelli acquatici. A differenza di quanto si era da sempre immaginato, gli stormi di limosa lapponica non seguono le coste dell’Asia orientale per avere sempre a disposizione della terraferma. Prediligono, invece, una rotta diretta dall’Alaska alla Nuova Zelanda, attraversando praticamente in linea retta l’intero Oceano Pacifico.

Sono circa 70.000 gli esemplari di limosa lapponica che ogni anno affrontano il viaggio di andata tra la Nuova Zelanda e l’Alaska in marzo, e in direzione contraria in settembre.
Grazie ai venti favorevoli, uno degli uccelli acquatici dotato di rilevatore satellitare (E7), ha effettuato l’intero viaggio di 11.500 km in un’unica soluzione, volando ininterrottamente per nove lunghissimi giorni. “È qualcosa di incredibile” ha confidato Rob Schuckard, uno dei ricercatori, al National Geographic, aggiungendo: “Sarebbe come se un essere umano corresse per un’intera settimana a una media oraria di 70 chilometri all’ora!”.
La maratona di E7 si è svolta alla velocità media di 57 km orari a una quota compresa tra tremila e quattromila metri. Durante i nove giorni di volo questo esemplare ha perso oltre la metà dei grassi accumulati in Alaska, volando senza sosta anche nelle complesse fasi di “sonno” che coinvolgevano a turni le due metà del suo encefalo.

Limosa lapponicaNonostante la loro incredibile resistenza fisica, gli esemplari di limosa lapponica stanno rischiando una rapida estinzione. La popolazione di 150.000 individui censita nei primi anni Novanta, si è dimezzata nell’ultimo decennio portandosi – secondo le ultime rilevazioni – a 70.000 esemplari. Questo calo vertiginoso è principalmente dovuto all’intensificarsi delle attività umane nell’immensa area del Pacifico, l’habitat in cui questi simpatici uccelli acquatici vivono da sempre.
La limosa lapponica è da diversi anni al centro di numerosi studi, le sue capacità di orientamento e di metabolismo delle riserve energetiche e le sue tecniche di riposo “selettivo” dell’encefalo devono essere ancora indagate e approfondite. Dal loro studio potremmo capire qualcosa di più su un altro bipede privo di ali che non depone uova, l’uomo.

“Vampiri” allo zucchero

Immaginate di poter mangiare torte, dolci, budini e qualsiasi cibo preparato con lo zucchero senza ingrassare di nemmeno un grammo. Fantascienza? Per noi sicuramente, ma per una particolare specie di mammifero no.

Metabolismo umano [Wikipedia]La maggior parte dei mammiferi, esseri umani compresi, ottiene l’energia per il proprio sostentamento dal metabolismo delle riserve di grasso e glicogeno (una macromolecola del glucosio, il composto organico più diffuso in natura) combinate con i cibi assimilati durante i pasti. Banalizzando molto, possiamo immaginare gli organismi dei mammiferi come complesse stufe, in cui le proteine, i carboidrati e i lipidi sono la legna da bruciare per mantenere sempre accesa ed efficiente la stufa. Quando la quantità di legna accumulata supera la legna effettivamente bruciata, l’organismo accatasta il legname in esubero creando una riserva per i possibili momenti di “magra”.
Questa efficienza energetica è alla base della sopravvivenza di tutti i mammiferi che, in misura naturalmente diversa da specie a specie, possono sempre fare affidamento sulle energie immagazzinate (generalmente sotto forma di lipidi, cioè grassi) e non ancora spese. Ma, come spesso accade, anche in questo caso un’eccezione conferma la regola.

Photo credit: Max Planck Research Centre for Ornithology/York WinterIn natura esiste infatti un mammifero “sprecone”, dotato di un organismo incapace di conservare a lungo le riserve di grasso: il pipistrello del nettare. Questo particolare chirottero ha una dieta molto speciale, povera di grassi e proteine, ma incredibilmente ricca di carboidrati semplici come gli zuccheri. Per mantenersi in volo, questo mammifero consuma quotidianamente ingenti quantità di energia e, non potendo fare affidamento su alcuna scorta, metabolizza direttamente gli zuccheri che assimila svolazzando di fiore in fiore.
Incuriositi da questa singolare peculiarità, un gruppo di ricercatori, guidati dal prof. C. C. Voigt e dal prof. J. R. Speakman, ha indagato le zuccherose abitudini alimentari del chirottero del nettare, arrivando a conclusioni davvero sensazionali.

I ricercatori hanno scoperto che il metabolismo del pipistrello del nettare ha la capacità di adattare il proprio ciclo al tipo di carboidrati semplici assunti durante i pasti. Nutriti in laboratorio con fruttosio (un monosaccaride a lento assorbimento), glucosio o saccarosio (il comune zucchero da tavola) i chirotteri si sono dimostrati in grado di calibrare i propri pasti in funzione della velocità di assorbimento dei tre tipi di carboidrati messi a disposizione dai ricercatori.
Il team di ricerca ha inoltre scoperto che, ogni giorno, i pipistrelli del nettare consumano il 50% delle loro esigue riserve di grasso. Un consumo sorprendentemente alto, mai riscontrato in altre specie di mammiferi.

Saccarosio, lo “zucchero da tavola”Nonostante i chirotteri del nettare consumino ogni giorno la metà dei grassi a loro disposizione, le rimanenti riserve di energia sono perfettamente calcolate per mantenere in vita i pipistrelli nella dozzina di ore di riposo diurno. Questi mammiferi dimostrano quindi una strabiliante velocità nel metabolizzare e trasformare gli zuccheri, senza pari in tutta la famiglia dei mammiferi.
Pubblicato sull’ultimo numero della prestigiosa rivista scientifica Functional Ecology, lo studio di Voigt e Speakman apre nuove e inesplorate vie per la ricerca sul metabolismo dell’insulina e l’insorgenza del diabete nell’uomo. Le incredibili doti metaboliche del chirottero del nettare potranno costituire un valido modello per trovare nuove ed efficaci cure per gli oltre 230 milioni di persone che in tutto il mondo soffrono di questa invalidante patologia.

Tornare a ricordare

Microscopio Tra le tante malattie degenerative il morbo di Alzheimer è sicuramente una delle più devastanti non solo per chi ne è affetto, ma anche per famigliari e amici che si vedono trasformati in sconosciuti dal malato che non è più in grado di riconoscerli.
L’Alzheimer distrugge progressivamente le cellule cerebrali, costringendo chi ne è affetto a un lento e inesorabile oblio tale da precludere qualsiasi possibilità di svolgere una vita normale. In Italia sono circa mezzo milione le persone affette da questo terribile morbo, che colpisce 18 milioni di individui in tutto il mondo.

Dopo numerosi anni di studio, un team di scienziati della St Andrew’s University (Gran Bretagna) è finalmente riuscito nella difficile impresa di fermare gli effetti degenerativi dell’Alzheimer costringendo la stessa malattia a recedere. Naturalmente questo incredibile risultato è stato ottenuto in laboratorio, occorreranno ancora alcuni anni prima che questa cura sperimentale possa diventare un farmaco per il trattamento precoce della malattia.
La chiave del successo di questa nuova cura risiede in una particolare proteina, progettata e sintetizzata ad hoc in laboratorio, basata sulla struttura tridimensionale di altre due proteine responsabili dei devastanti effetti degenerativi dell’Alzheimer. “Incollandosi” a una di queste due proteine, la proteina inibitrice ideata dal team di scienziati inglesi impedisce alle proteine del morbo di unirsi e di iniziare la complessa catena biochimica che porta alla progressiva morte delle cellule cerebrali dei malati di Alzheimer.

“Il nostro lavoro di ricerca non si ferma” ha dichiarato con soddisfazione Frank Gunn-Moore, uno degli artefici della scoperta, al Guardian. “Continueremo lo sviluppo della nostra proteina inibitrice fino a ottenere un farmaco. Occorreranno ancora alcuni anni di sperimentazione, ma la strada è ormai tracciata”.
La cura contro l’oblio potrebbe dunque essere più vicina di quanto immaginiamo.

Quando l’uomo cambiò il ciclo delle piogge

PioggiaUn gruppo internazionale di scienziati ha dimostrato, sulla base di dati empirici, come le attività umane abbiano dirette e concrete conseguenze sulle precipitazioni atmosferiche. Per giungere a questa terribile conclusione, i ricercatori hanno incrociato i dati relativi agli ultimi 80 anni di precipitazioni con un complesso modello matematico in grado di simulare i cambiamenti climatici sulla base di due parametri fondamentali legati all’attività umana: l’emissione di gas serra e di solfati. I dati così ottenuti sono stati poi “spalmati” sulle diverse latitudini del nostro pianeta, prestando particolare attenzione alle aree tradizionalmente più piovose.
Dopo aver elaborato e confrontato i dati di più di 90 simulazioni, i ricercatori sono giunti a questa sorprendente conclusione: le attività umane hanno sensibilmente alterato l’andamento delle precipitazioni atmosferiche in almeno tre fasce geografiche. A causa dell’uomo le piogge sono aumentate di due terzi nella fascia Canada – Stati Uniti – Europa e Russia a discapito della fascia Messico – Africa sahariana dove le precipitiazioni sono diminuite di un terzo. Nell’area che include Brasile – Sud Africa e Indonesia le precipitazioni sono aumentate quasi di un terzo rispetto alla normale quantità di piogge rilevate nei secoli scorsi.

I sorprendenti risultati di questa ricerca dimostrano ancora una volta la complessità dei cambiamenti climatici che negli ultimi decenni stanno interessando il nostro pianeta. Il modello elaborato dai ricercatori potrà fornire nuovi elementi per studiare il surriscaldamento globale, identificando con più precisione le diverse tipologie di gas serra responsabili dei cambiamenti climatici.
La ricerca ha brillantemente superato i controlli di rito per l’attendibilità scientifica ed è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista Science. Prima ancora di essere data alle stampe, la ricerca condotta dal team del climatologo Francis Zwiers dell’Environment Canada di Toronto è stata aspramente criticata da alcuni ricercatori, sorpresi dalle eccessive responsabilità attribuite alle sole attività umane. Questa pioggia di obiezioni riapre dunque il dibattito nella comunità scientifica. Ma almeno questo genere di “precipitazioni” critiche fa bene alla scienza…