Scoperto nuovo meccanismo dell’udito

Un gruppo di ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology – USA) ha scoperto un nuovo meccanismo dell’udito che rivoluziona sostanzialmente le conoscenze sull’orecchio interno. Questo nuovo meccanismo potrebbe essere molto utile non solo per spiegare l’incredibile capacità del nostro orecchio di distinguere con estrema precisione suoni e rumori, ma anche per sviluppare sistemi più efficienti per il recupero dell’udito.

Schema della struttura dell’orecchio interno [photo credit: Wikipedia]La ricerca, pubblicata qualche giorno fa sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, è stata guidata dal prof. Dennis M. Freeman del MIT che ha evidenziato come la membrana tettoriale (una sostanza gelatinosa contenuta nella coclea) rivesta un ruolo molto più importante di quanto immaginato nel percepire e distinguere i suoni.
La membrana tettoriale è infatti in grado di ricevere e trasmettere impulsi in numerose zone della coclea attraverso particolari onde, del tutto diverse da quelle già conosciute e comunemente associate all’udito.
Per oltre un secolo si è ipotizzato che all’interno della coclea le onde sonore fossero trasformate e condotte attraverso una particolare struttura chiamata membrana basilare, presente nel canale cocleare. Il team di ricercatori del MIT ha invece scoperto che un diverso tipo di onda, tenuto da sempre in scarsa considerazione per la sua particolare conformazione, è ugualmente in grado di trasmettere i suoni. Questa onda agisce sulla membrana tettoriale, una parte della coclea collocata al di sopra delle cellule sensoriali dell’udito deputate a ricevere e trasmettere informazioni al cervello. Secondo i ricercatori del MIT, questo secondo tipo di onda rivestirebbe un ruolo fondamentale nel trasmettere gli impulsi sonori alle cellule dell’udito.

Spaccato dell’apparato cocleare [photo credit: Wikipedia]Banalizzando molto, possiamo dire che il nostro orecchio interno è in grado di trasformare meccanicamente le onde sonore in due tipi differenti di onde, caratterizzate da un diverso modo di muoversi nello spazio. Queste onde possono interagire per stimolare le cellule dell’udito e migliorarne la sensibilità, tanto da consentirci di udire suoni molto deboli o disturbati.
L’interazione tra i due tipi di onde sonore, create meccanicamente dal nostro orecchio interno, potrebbe essere la chiave per spiegare l’incredibile fedeltà con cui riusciamo a riconoscere suoni e rumori.
“Sappiamo che l’orecchio umano è estremamente sensibile – ha dichiarato il prof. Freeman – ma non sappiamo ancora quale meccanismo consenta al nostro udito di essere così preciso. La nostra ricerca ha però evidenziato, per la prima volta, un nuovo meccanismo cui nessuno aveva ancora pensato, che potrebbe aprirci nuove strade per risolvere l’enigma dell’udito”.

La scoperta del prof. Freeman e del suo team di ricerca ha evidenziato quanto la conoscenza della struttura intima del nostro orecchio sia ancora da approfondire e studiare. L’inaspettato ruolo della membrana tettoriale nella trasmissione e nel riconoscimento delle onde sonore potrà portare a una nuova generazione di apparati cocleari artificiali, maggiormente sensibili e affidabili, per strappare dall’oblio del silenzio migliaia di persone affette da gravi patologie uditive.

Tornare a ricordare

Microscopio Tra le tante malattie degenerative il morbo di Alzheimer è sicuramente una delle più devastanti non solo per chi ne è affetto, ma anche per famigliari e amici che si vedono trasformati in sconosciuti dal malato che non è più in grado di riconoscerli.
L’Alzheimer distrugge progressivamente le cellule cerebrali, costringendo chi ne è affetto a un lento e inesorabile oblio tale da precludere qualsiasi possibilità di svolgere una vita normale. In Italia sono circa mezzo milione le persone affette da questo terribile morbo, che colpisce 18 milioni di individui in tutto il mondo.

Dopo numerosi anni di studio, un team di scienziati della St Andrew’s University (Gran Bretagna) è finalmente riuscito nella difficile impresa di fermare gli effetti degenerativi dell’Alzheimer costringendo la stessa malattia a recedere. Naturalmente questo incredibile risultato è stato ottenuto in laboratorio, occorreranno ancora alcuni anni prima che questa cura sperimentale possa diventare un farmaco per il trattamento precoce della malattia.
La chiave del successo di questa nuova cura risiede in una particolare proteina, progettata e sintetizzata ad hoc in laboratorio, basata sulla struttura tridimensionale di altre due proteine responsabili dei devastanti effetti degenerativi dell’Alzheimer. “Incollandosi” a una di queste due proteine, la proteina inibitrice ideata dal team di scienziati inglesi impedisce alle proteine del morbo di unirsi e di iniziare la complessa catena biochimica che porta alla progressiva morte delle cellule cerebrali dei malati di Alzheimer.

“Il nostro lavoro di ricerca non si ferma” ha dichiarato con soddisfazione Frank Gunn-Moore, uno degli artefici della scoperta, al Guardian. “Continueremo lo sviluppo della nostra proteina inibitrice fino a ottenere un farmaco. Occorreranno ancora alcuni anni di sperimentazione, ma la strada è ormai tracciata”.
La cura contro l’oblio potrebbe dunque essere più vicina di quanto immaginiamo.