Orche, le strateghe dei mari

Alcune orche dell’Antartide utilizzano una tattica molto scaltra per cacciare in gruppo: nuotando rapidamente creano delle poderose onde, in grado di scalzare dalla superficie delle placche di ghiaccio le foche, le loro prede favorite.

[credit: hickerphoto.com]Questo tipo di comportamento fu osservato per la prima volta nel 1979, ma fu considerato come un fatto isolato e legato a un’unica orca. Ora, invece, Ingrid Visser dell’Orca Research Trust (Nuova Zelanda) è stata in grado di osservare altri sei comportamenti di caccia del tutto simili a quello registrato nell’ormai lontano 1979.
Le orche osservate da Visser e il suo team cacciano isolando le loro prede su sottili piattaforme di ghiaccio. Dopodiché, nuotando in formazione, creano una forte onda in grado di spazzare in acqua gli animali che avevano trovato rifugio sulla placca di ghiaccio. A questo punto le prede non hanno più scampo dalle possenti mandibole delle orche.

[credit: mongabay.com]Un comportamento di questo tipo è stato unicamente osservato nella Penisola Antartica e in nessun’altra parte del mondo. I risultati dell’interessante ricerca sono stati da poco pubblicati sulla rivista scientifica Marine Mammal Science, che raccoglie articoli di etologi, naturalisti e biologi sui cetacei.
Le orche hanno da sempre incuriosito i ricercatori per le loro strategie di caccia. Nel 1970 alcuni etologi osservarono per diverso tempo un’orca che aveva elaborato una machiavellica strategia di caccia. Giunto sulle coste dell’Argentina, il grande mammifero marino fingeva di essersi arenato a pochi passi dalle spiagge. La visione del pericoloso animale in difficoltà rendeva meno inquiete le foche, che proseguivano così la spola tra la spiaggia e le acque dell’oceano. Quando una foca era sufficientemente “a tiro”, l’orca si animava improvvisamente mordendo al collo la propria preda per poi scivolare rapidamente sott’acqua. Il mammifero marino riusciva a coordinare le proprie battute di caccia con le maree, così da non rischiare mai l’effettivo spiaggiamento.

Le orche sono animali estremamente intelligenti e, secondo la ricerca di Visser, sarebbero in grado di insegnare con dedizione alle nuove generazioni le tecniche di caccia più efficaci, compresi i trucchi del finto spiaggiamento e dell’onda per travolgere le prede sulle placche di ghiaccio. In questo filmato è possibile assistere proprio a uno di questi fenomeni, il momento clou è al minuto 2:40.

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Migliaia di microbi nelle profondità oceaniche

Coste dell’OregonMigliaia di nuovi microbi sono stati scoperti nelle profondità oceaniche al largo delle coste dell’Oregon (Nord-Est degli USA) da un team di scienziati del Marine Biological Laboratory (MBL) dell’Università di Washington.
La scoperta, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Science, è il risultato della più grande catalogazione mai realizzata per studiare il ruolo dei microbi marini nella produzione di anidride carbonica, azoto e zolfo.

Batteri isolati nelle acque al largo dell’Oregon [photo credit: Julie Huber]Utilizzando una nuova tecnica di analisi, i ricercatori hanno potuto mappare migliaia di nuove sequenze di DNA appartenenti a batteri e archei, due dei tre maggiori domini degli esseri viventi.
Le approfondite ricerche sul fondale marino e alle pendici di un vulcano sottomarino hanno consentito il ritrovamento di oltre 3.000 tipi di archei e 37.000 batteri. “Molti di questi microbi non erano mai stati scoperti, alcuni sono talmente differenti dai tradizionali batteri da non poter essere facilmente catalogati” ha dichiarato la responsabile del progetto Julie Huber.

Per comprendere pienamente le dinamiche di cresciuta e sviluppo di queste sterminate colonie di microbi, i ricercatori dovranno mappare meticolosamente il DNA dei batteri identificati nelle profondità oceaniche, distinguendo le mutazioni delle specie già note da quegli esemplari ancora sconosciuti e quindi mai catalogati.
La ricerca ha infatti dimostrato come questi nuovi microbi oceanici siano in grado di adattarsi perfettamente all’ambiente che li circonda, differenziandosi a seconda delle profondità in cui vivono e proliferano. Lo studio di queste particolari abilità potrà aiutare gli scienziati nell’analisi dei cambiamenti degli ecosistemi indotti dai fenomeni naturali, o legati all’attività dell’uomo.

Uno squalo primitivo… nel terzo millennio

Un raro esemplare di Chlamydoselachus anguineus, un squalo primitivo appartenente alla famiglia Chlamydoselachidae, è stato recentemente avvistato al largo delle coste giapponesi durante le riprese di un documentario sulla fauna marina.
Debilitato e gravemente malato, lo squalo è stato condotto all’Awashima Marine Park di Shizuoka (a sud di Tokio) dove è morto dopo pochi giorni nonostante le amorevoli cure dei responsabili dello zoo marino.

Il curioso esemplare di Chlamydoselachus anguineus ritrovato al largo delle coste giapponesi [photo credit: Getty Images]Originaria delle coste sud africane, questa particolare specie di squalo è riconoscibile grazie alle prominenti branchie, che si gonfiano vistosamente nelle fasi di respirazione, e al corpo lungo e affusolato che raramente supera i due metri di lunghezza. Per la sua particolare fisionomia, il Chlamydoselachus anguineus assomiglia a un’anguilla molto cresciuta.

Chlamydoselachus anguineusNonostante il basso numero di esemplari, questa specie di squalo popola tutti gli oceani, vivendo a ridosso delle scarpate continentali a una profondità che oscilla tra i 120 e i 1.500 metri.
L’origine e le abitudini di vita del Chlamydoselachus anguineus sono ancora un mistero. Per molto tempo si è immaginato che questa specie di squali fosse ormai estinta da migliaia di anni, ma i ritrovamenti di alcuni esemplari nel diciannovesimo secolo sconfessarono questa ipotesi.
Secondo alcuni ricercatori, tra cui il biologo marino Leonard Compagno, il Chlamydoselachus anguineus sarebbe ovoviviparo come numerose altre specie di squali. Le uova sarebbero dunque fecondate all’interno della femmina che, dopo una gestazione di 18 mesi, “partorirebbe” da 2 a 12 cuccioli per ogni nidiata.
Tesi che soltanto un altro fortuito avvistamento potrà confermare…

Cocktail oceanico

“Perché non mischiamo le acque degli oceani per raffreddare il Pianeta?”
Questa la singolare proposta espressa da James Lovelock e Chris Rapley in una lettera aperta alla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Schema del ciclo di emissione e assorbimento di CO2 degli oceani [photo credit: Planktos.com]Secondo Lovelock, passato alla cronaca per la sua controversa teoria sulla capacità della Terra di “curarsi” da sola, e il curatore del London Science Museum Rapley, si potrebbero utilizzare delle imponenti tubature verticali per mescolare le acque ricche di nutrienti vegetali dei fondali marini con le acque di superficie, meno dense e povere di vegetazione. Ciò comporterebbe un maggior consumo di anidride carbonica (CO2) grazie alla fotosintesi delle alghe, con un conseguente abbattimento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera.
Nella loro lettera aperta pubblicata su Nature, i due autori ammettono che quella del “cocktail oceanico” sia ancora una semplice idea, perfetta nella teoria, ma difficile da applicare nella pratica. Lovelock e Rapley sono però convinti che solamente utilizzando le enormi potenzialità naturali ed energetiche del Pianeta sarà possibile arrestare il surriscaldamento globale.

Sommità di un “pozzo di pompaggio oceanico” [photo credit: Atmocean]Quella di mescolare le acque degli oceani può apparire un’idea balzana e irrealizzabile, eppure un’azienda di Santa Fe (New Mexico – USA) sta cercando già da alcuni mesi di creare un sistema per il pompaggio verticale dell’acqua oceanica.
Secondo Phil Kithil, amministratore delegato della Atmocean, un utilizzo intensivo dei sistemi di pompaggio potrebbe raddoppiare la capacità degli oceani di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera. La sua azienda ha già sviluppato un particolare tipo di tubi galleggianti larghi tre metri e lunghi 300m in grado di svolgere perfettamente il compito suggerito da Lovelock e Rapley.

L’idea di rendere più fertile gli oceani per aumentare la loro capacità di assorbimento dell’anidride carbonica non è una novità. Il biologo ed oceanografo David Karl (University of Hawaii, USA) si dedica da molti anni allo studio delle alghe e dei loro nutrienti coinvolti nei cicli di emissione e assorbimento della CO2.
Interessato a misurare l’effettiva capacità delle acque oceaniche di “ripulire l’aria”, il prossimo anno Karl condurrà un esperimento su larga scala utilizzando le strumentazioni messe a disposizione dalla Atmocean. Raccolti i dati, Karl cercherà poi di calcolare il bilancio finale del processo comparando la quantità di anidride carbonica riportata in superficie dalle profondità oceaniche con quella effettivamente assorbita dalle alghe.

onda.jpgAlcuni scienziati temono infatti che il bilancio finale del processo proposto da Lovelock e Rapley possa essere negativo.
Secondo i detrattori del “cocktail oceanico”, le sostanze presenti nelle profondità oceaniche contengono ingenti quantità di anidride carbonica che, una volta portate in superficie a una pressione molto più bassa, potrebbe liberarsi rapidamente nell’atmosfera come avviene con le bollicine in un bicchiere d’acqua gassata.
Inoltre, per estrarre l’acqua dalle profondità oceaniche sarebbero necessarie ingenti quantità di energia che, allo stato, non potrebbero essere ottenute da fonti rinnovabili e a basso impatto (anche se la Atmocean afferma che per il suo sistema sia sufficiente l’energia fornita dai moti ondosi).
Nonostante le numerose stroncature di questa teoria, David Karl prosegue con pionieristico ottimismo le sue ricerche: “È un progetto magnifico, anche se so che potrebbero esserci forti difficoltà per tramutare la teoria nella pratica…”

Creature dai remoti fondali oceanici

Numerosi animali marini vivono sui fondali oceanici a centinaia di metri di profondità, lontani dalla luce solare e dalle correnti più “trafficate” di pesci e molluschi. Biologi e studiosi di oceanografia ipotizzano l’esistenza di una ricchissima fauna sottomarina ancora da scoprire, catalogare e studiare.
Nonostante le profondità spesso proibitive, alcuni ricercatori riescono nella difficile e pericolosa impresa di scoprire nuove creature marine. È il caso del team internazionale composto da 31 biologi e oceanografi che ha recentemente esplorato parte della Dorsale medio atlantica, una vera e propria catena montuosa sommersa dalle acque che si sviluppa lungo l’intero Oceano Atlantico dal Polo Nord fino all’Antartide.

Il Viper-fish visto di profilo [credit: David Shale - University of Aberdeen]Durante le cinque settimane di ricerca, il gruppo di scienziati ha catalogato numerosi invertebrati, coralli, cetrioli di mare e pesci molto particolari, come il Pesce-vipera [foto], una curiosa specie ittica che può crescere fino a raggiungere i 60cm di lunghezza e caratterizzata da una folta e acuminata dentatura.
Molte specie identificate sulla Dorsale medio atlantica si sono dimostrate estremamente rare, tanto da essere state catalogate in tempi molto recenti. Tra le creature individuate spicca la presenza di una nuova specie appartenete alla classe degli Ostracoda, un piccolo crostaceo caratterizzato da un corpo di piccole dimensioni, racchiuso in un carapace bivalve con tronco molto ridotto e capo sviluppato.

Histioteuthis [credit: David Shale - University of Aberdeen]A 500 metri di profondità i ricercatori hanno identificato un rarissimo esemplare di Histioteuthis [foto], un calamaro caratterizzato da uno sguardo molto particolare. Conosciuto anche come “Calamaro strabico”, questo animaletto delle profondità marine ha l’occhio sinistro grande il doppio rispetto al destro per scandagliare con più efficacia l’oscuro fondale oceanico.

“Calamaro di vetro” [credit: David Shale - University of Aberdeen]Analizzando l’area di un’enorme montagna sottomarina ampia migliaia di chilometri quadrati, il team di ricerca ha scoperto un’altra famiglia di calamari molto rara: la Cranchiidae, che raccoglie una sessantina di specie diverse di “Calamari di vetro” [foto]. Grazie alla loro trasparenza, questi animali riescono a sfuggire alla voracità dei predatori dei fondali oceanici. L’unico elemento visibile del loro organismo è una particolare ghiandola dell’apparato digerente, che assolve una funzione molto simile a quelle espletate dal nostro fegato.

La forma del gamberetto Phronima ha ispirato il disegnatore del mostro di Alien [David Shale - University of Aberdeen]Come i calamari appartenenti alla famiglia delle Cranchiidae, anche questo esemplare della famiglia degli Anfipodi [foto] sfrutta la propria trasparenza per passare inosservato e non cadere nelle grinfie delle altre creature che popolano la Dorsale medio atlantica. Appartenente alla specie Phronima, questo piccolo gamberetto raggiunge mediamente una lunghezza di appena due centimetri. Ghiotto di plancton (il complesso di minuscoli organismi presenti nell’acqua marina), questo minuscolo animaletto ispirò Hans Ruedi Giger, il “papà” della mostruosa creatura di Alien.