Creature dai remoti fondali oceanici

Numerosi animali marini vivono sui fondali oceanici a centinaia di metri di profondità, lontani dalla luce solare e dalle correnti più “trafficate” di pesci e molluschi. Biologi e studiosi di oceanografia ipotizzano l’esistenza di una ricchissima fauna sottomarina ancora da scoprire, catalogare e studiare.
Nonostante le profondità spesso proibitive, alcuni ricercatori riescono nella difficile e pericolosa impresa di scoprire nuove creature marine. È il caso del team internazionale composto da 31 biologi e oceanografi che ha recentemente esplorato parte della Dorsale medio atlantica, una vera e propria catena montuosa sommersa dalle acque che si sviluppa lungo l’intero Oceano Atlantico dal Polo Nord fino all’Antartide.

Il Viper-fish visto di profilo [credit: David Shale - University of Aberdeen]Durante le cinque settimane di ricerca, il gruppo di scienziati ha catalogato numerosi invertebrati, coralli, cetrioli di mare e pesci molto particolari, come il Pesce-vipera [foto], una curiosa specie ittica che può crescere fino a raggiungere i 60cm di lunghezza e caratterizzata da una folta e acuminata dentatura.
Molte specie identificate sulla Dorsale medio atlantica si sono dimostrate estremamente rare, tanto da essere state catalogate in tempi molto recenti. Tra le creature individuate spicca la presenza di una nuova specie appartenete alla classe degli Ostracoda, un piccolo crostaceo caratterizzato da un corpo di piccole dimensioni, racchiuso in un carapace bivalve con tronco molto ridotto e capo sviluppato.

Histioteuthis [credit: David Shale - University of Aberdeen]A 500 metri di profondità i ricercatori hanno identificato un rarissimo esemplare di Histioteuthis [foto], un calamaro caratterizzato da uno sguardo molto particolare. Conosciuto anche come “Calamaro strabico”, questo animaletto delle profondità marine ha l’occhio sinistro grande il doppio rispetto al destro per scandagliare con più efficacia l’oscuro fondale oceanico.

“Calamaro di vetro” [credit: David Shale - University of Aberdeen]Analizzando l’area di un’enorme montagna sottomarina ampia migliaia di chilometri quadrati, il team di ricerca ha scoperto un’altra famiglia di calamari molto rara: la Cranchiidae, che raccoglie una sessantina di specie diverse di “Calamari di vetro” [foto]. Grazie alla loro trasparenza, questi animali riescono a sfuggire alla voracità dei predatori dei fondali oceanici. L’unico elemento visibile del loro organismo è una particolare ghiandola dell’apparato digerente, che assolve una funzione molto simile a quelle espletate dal nostro fegato.

La forma del gamberetto Phronima ha ispirato il disegnatore del mostro di Alien [David Shale - University of Aberdeen]Come i calamari appartenenti alla famiglia delle Cranchiidae, anche questo esemplare della famiglia degli Anfipodi [foto] sfrutta la propria trasparenza per passare inosservato e non cadere nelle grinfie delle altre creature che popolano la Dorsale medio atlantica. Appartenente alla specie Phronima, questo piccolo gamberetto raggiunge mediamente una lunghezza di appena due centimetri. Ghiotto di plancton (il complesso di minuscoli organismi presenti nell’acqua marina), questo minuscolo animaletto ispirò Hans Ruedi Giger, il “papà” della mostruosa creatura di Alien.

Vitamina C vitale per le piante

Struttura chimica dell’acido ascorbico, la comune vitamina C [credit: Wikipedia]Ogni anno, in concomitanza con l’arrivo della stagione fredda, si registra un considerevole aumento nella vendita di vitamina C, il nutriente ritenuto più indicato per la cura di raffreddori e stati influenzali.
Secondo una recente ricerca, anche le piante trarrebbero numerosi benefici dall’acido ascorbico (vitamina C) e non certo per curarsi l’influenza…

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Exter (Gran Bretagna) e della Shimane University (Giappone) ha dimostrato per la prima volta un legame essenziale tra la crescita delle piante e la vitamina C. Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista The Plant Journal, ha evidenziato la presenza di uno specifico enzima, GDP-L-galattosio fosforilasi, in grado di sintetizzare l’acido ascorbico nelle piante.
I ricercatori hanno dimostrato come la vitamina C non sia solo in grado di attenuare gli effetti dovuti alla siccità, all’ozono e ai raggi solari ultravioletti, ma sia anche fondamentale per la crescita e la vita stessa delle piante.

Tabella riassuntiva degli alimenti con alta concentrazione di Vitamina C“La vitamina C è l’antiossidante più diffuso nei vegetali, eppure le sue funzioni ci sono quasi del tutto ignote. Dopo aver identificato la coppia di geni con il codice per produrre l’enzima, abbiamo creato in laboratorio alcune piante prive di vitamina C, con nostra sorpresa abbiamo scoperto che in assenza di acido ascorbico non erano in grado di crescere” ha dichiarato il prof. Nicholas Smirnoff, responsabile del team di ricerca.
Lo studio ha anche dimostrato come l’enzima GDP-L-galattosio fosforilasi rivesta un ruolo fondamentale nell’accumulo di vitamina C nei vegetali in risposta agli stimoli luminosi. L’acido ascorbico, infatti, protegge le piante dagli effetti deleteri della luce, necessaria per attivare i processi di fotosintesi.

La scoperta del prof. Smirnoff e del suo team consentirà di comprendere con maggiore precisione i processi di crescita e sopravvivenza delle piante, conoscenze fondamentali per ottimizzare le risorse in campo agricolo. Ma non solo.
Il processo di produzione della vitamina C per fini terapeutici è molto complesso e richiede delicati passaggi di fermentazione e sintesi chimica. Il nuovo enzima appena scoperto potrebbe essere utilizzato per produrre vitamina C in un unico passaggio, con un considerevole risparmio di tempo e denaro.

Come funziona una biro?

Ogni giorno vengono vendute decine di milioni di comunissime biroPrima dell’invenzione della penna stilografica, brevettata per la prima volta in Francia nel 1827, il calamo fu il normale strumento di scrittura per migliaia di anni. Per scrivere si utilizzava la base delle penne di numerosi uccelli di media taglia, come oche e alcune specie di rapaci.
La penna biro, lo strumento per scrivere più utilizzato al mondo, venne inventato circa settant’anni fa dalla mente geniale dell’inventore ungherese László József Bíró che, secondo la leggenda, avrebbe avuto l’intuizione di utilizzare una “punta a sfera” osservando alcuni bambini che giocavano a biglie in strada. Rifugiatosi in Argentina durante i sanguinosi anni della Seconda guerra mondiale, Bíró perfezionò la sua invenzione e – con l’aiuto del fratello Gybrgy – iniziò a produrre in serie la sua penna a sfera.
Per questioni economiche nel 1944 Bíró fu costretto a vedere il proprio brevetto a uno dei suoi finanziatori, che avviò un’intensa produzione di penne per l’aviazione Alleata. Rispetto ai normali strumenti per la scrittura, infatti, la penna a sfera aveva il vantaggio di non risentire delle variazioni di pressione dell’aria sugli aerei da combattimento.
Scomparso dalla scena, il nome di Bíró divenne una parola di uso quotidiano utilizzata da miliardi di persone in tutto il mondo per indicare la sua geniale invenzione.

Ma come funziona una biro?
La sfera di una biro ingrandita 80 volte [credit: Reader’s Digest] Il cuore di ogni penna a sfera è una minuscola pallina metallica, levigata con estrema precisione, in grado di trasferire sulla carta l’inchiostro denso e oleoso contenuto nel serbatoio della biro, una lunga cannuccia che sovrasta la sfera.
Perfettamente sferica, prodotta generalmente in acciaio dolce e inossidabile, questa pallina ha un diametro di appena un millimetro ed è molata (levigata) con un margine di errore inferiore al centomillesimo di millimetro. Realizzata anche in tungsteno e carbonio, a volte può essere volutamente ruvida per migliorare l’attrito con la carta e con l’inchiostro da stendere sul foglio.

Le “creste” nella punta consentono una diffusione omogenea dell’inchiostro sulla sfera [credit: Reader’s Digest]La sfera viene alloggiata nella punta della biro, un cono realizzato in acciaio e ottone in grado di lasciare sufficiente liberà di movimento alla sfera. Con un colpo molto preciso e delicato vengono poi ribattuti i bordi del cono per evitare che la pallina esca dal proprio alloggiamento.
L’inchiostro passa dalla cannuccia (il serbatoio) al cono dove, attraverso una ghiera di minuscole creste, “sporca” la sfera. La minuscola presa d’aria presente nel tubicino di ogni penna evita che all’interno del serbatoio si crei il vuoto, che impedirebbe all’inchiostro di scendere e depositarsi sulla sfera. Una particolare marca di biro utilizza il principio opposto, mantenendo sotto pressione il serbatoio dell’inchiostro. Ciò consente di utilizzare la penna a sfera anche dal basso verso l’alto… e in assenza di gravità nello Spazio.

Una biro al completo con la sua sfera, ai margini della punta si nota il bordo ribattuto per evitare l’uscita della pallina [credit: Reader’s Digest]Muovendo la biro sul foglio la pallina si comporta come un minuscolo rullo. Grazie alla rotazione deposita l’inchiostro proveniente dalla cannuccia sul foglio.
Sono decine di milioni le biro vendute ogni giorno in tutto il mondo. Mediamente una penna a sfera a punta sottile può produrre circa 3,5km di scrittura, con punta “standard” si raggiungono invece i 2,5 km.
Buona scrittura!

Foresta Amazzonica a secco

Foto satellitare del forte periodo di siccità del 2005, in verde scuro le aree più rigoglioseNonostante il lungo periodo di siccità che ha colpito alcune aree della foresta Amazzonica, il cuore verde del nostro Pianeta, la vegetazione in quest’area geografica è cresciuta con una velocità superiore alle normali medie registrate negli ultimi anni.
Questo fenomeno contraddice in parte l’ipotesi secondo cui la foresta Amazzonica potrebbe conoscere il suo ultimo autunno appena dopo un mese di siccità, fino al collasso della sua intera vegetazione.

“Invece di attivare alcuni meccanismi di autoprotezione per sopravvivere durante i periodi di siccità, nel 2005 la foresta Amazzonica ha risposto molto positivamente alla mancanza d’acqua, perlomeno nel medio termine” ha dichiarato l’autore della ricerca Scott R. Saleska dell’Università dell’Arizona (USA) che ha definito il comportamento della foresta come “Un fenomeno completamente inaspettato e molto interessante”.
La siccità registrata nel 2005 raggiunse il proprio picco durante l’inizio della stagione secca dell’Amazzonia, tra luglio e settembre. Nonostante il periodo di estrema aridità dei terreni, che avrebbe dovuto arrestare la crescita dei vegetali nell’immensa area geografica, buona parte del “polmone verde” ha continuato a svilupparsi aumentando i processi di fotosintesi e mostrando un rigoglio fuori dal comune.

La foresta Amazzonica è una risorsa fondamentale per ripulire l’aria dai gas serra e diminuire l’impatto del surriscaldamento globalePer monitorare la foresta Amazzonica, il team di ricercatori guidati dal prof. Saleska ha utilizzato le informazioni e i dati forniti da due sofisticati satelliti della NASA. Immagini e rilevazioni disponibili già da molti anni, ma che nessuno aveva ancora valutato come una opportunità per sorvegliare una delle aree più verdi dell’intero Pianeta.
Il durissimo periodo di siccità del 2005 e le informazioni fornite dai due satelliti della NASA, uno per mappare il rigoglio della vegetazione e l’altro per misurare i livelli di precipitazioni atmosferiche nella fascia dei tropici, hanno permesso ai ricercatori di studiare nel dettaglio la reazione dell’intera foresta Amazzonica alla prolungata mancanza d’acqua.
Osservando i dati raccolti mese per mese sul cambiamento della vegetazione, Saleska e i suoi colleghi hanno potuto tracciare la storia evolutiva della foresta dal 1997 al 2005, che ha evidenziato una crescita media della vegetazione costante anche nelle aree colpite da lunghi periodi di siccità.

Questa scoperta contraddice in parte i più recenti modelli climatici che, in caso di siccità, predirebbero una rapida scomparsa di ampie aree verdi della foresta Amazzonica. Almeno nel medio periodo, l’enorme distesa verde del Sud America ha dimostrato di poter contare sulle proprie forze e riserve per mantenersi rigogliosa e vitale, continuando ad apportare i suoi benefici effetti nella riduzione di CO2 nell’atmosfera.

La ricerca, che verrà pubblicata nell’ultima settimana di Ottobre su Science, ha già suscitato molto scalpore tra biologi e climatologi, interessati ad approfondire l’incredibile e controintuitiva scoperta dei ricercatori della Università dell’Arizona.
Nonostante questo importante risultato, quanto la foresta Amazzonica possa resistere in assenza d’acqua rimane ancora un mistero. Saleska non ha però dubbi: “Non sappiamo per quanto, ma è certo che un periodo prolungato di mancanza d’acqua porterebbe all’inevitabile morte di buona parte della vegetazione”.
Un rischio che non possiamo permetterci.

Topolini forzuti contro la distrofia

Topocorsa Dieci anni fa un team di ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora (Maryland, USA) era riuscito nella difficile impresa di creare un topolino dall’incredibile forza fisica, compiendo un balzo da gigante nella complessa ricerca dello sviluppo e della crescita degli apparati muscolari. Il risultato era stato ottenuto escludendo dal patrimonio genetico di alcuni topolini il gene con le istruzioni per produrre la miostatina, una particolare proteina in grado di regolare e limitare la crescita muscolare. I topi culturisti ottenuti da questa selezione godevano di ottima salute e avevano un ciclo di vita simile ai loro parenti più smilzi.

Sulla scia di quell’insperato successo, il team guidato dal prof. Se-Jin Lee ha proseguito alacremente le proprie ricerche, giungendo in questi ultimi giorni a risultati altrettanto sorprendenti. I ricercatori hanno infatti scoperto che stimolando la produzione della follistatina, un’altra proteina responsabile della crescita muscolare, è possibile raddoppiare ulteriormente la già strabiliante crescita muscolare scoperta dieci anni fa. “Se li osservi, i topolini paiono completamente normali, sono solamente un po’ più grossi” ha dichiarato entusiasta il prof. Lee al Guardian.

I muscoli di questi super-topi risultano essere fino a quattro volte più sviluppati rispetto al normale. Le fibre muscolari sono più grandi del 117% e racchiudono un numero maggiore di fasci muscolari, circa il 73%.
Lo scopo della ricerca non è certo finalizzato alla creazione di un team di super-ratti pugili, ma allo studio approfondito delle dinamiche che portano alla crescita e al deperimento delle fibre muscolari, causato da terribili malattie come la distrofia. Il prof. Se-Jin Lee non ha dubbi: “Questa scoperta potrà aiutarci moltissimo nello studio delle malattie muscolari degenerative e della progressiva perdita di tonicità muscolare con l’avanzamento dell’età”.

Un farmaco in grado di inibire la miostatina è già in fase di sperimentazione clinica per trattare con efficacia la distrofia muscolare, mentre è già allo studio un medicinale per aumentare la produzione di follistatina, il cui ruolo nella crescita dei muscoli è stato confermato dalla ricerca dell’università di Baltimora.
Sono circa 60 i tipi fino a oggi conosciuti di distrofia muscolare e neuromuscolare. Queste terribili patologie aggrediscono muscoli e neuroni, rendendoli progressivamente incapaci di muoversi e di trasmettere informazioni. Al momento non esiste cura e da anni numerosi ricercatori cercano di capire il meccanismo genetico, generalmente ereditario, che porta al manifestarsi della malattia.

La conferma delle incredibili proprietà della follistatina non è dunque un punto di arrivo, ma un nuovo punto di partenza. La strada da compiere è ancora lunga.

Nel cuore del Pianeta

Rappresentazione grafica dell’interno della Terra [credit: Wikipedia]Nel suo romanzo Viaggio al centro della Terra (1864), Jules Verne racconta l’incredibile e avvincente storia di una spedizione che si avventura nelle viscere di un vulcano per raggiungere il centro del Pianeta.
Nel corso di oltre un secolo, il magnifico racconto di Verne ha stimolato la fantasia non solo dei lettori, ma anche dei tanti geologi che da sempre si interrogano sulla misteriosa natura intima della Terra. Paradossalmente, infatti, conosciamo molte più cose sull’angolo di Universo in cui si trova la nostra galassia rispetto al “ripieno” del nostro Pianeta.
Grazie ai dati forniti dalle rilevazioni sismografiche, si è giunti a immaginare la Terra come un’enorme serie di matrioske suddivisa in numerosi “gusci”: crosta (la superficie su cui viviamo), mantello superiore, mantello inferiore, nucleo esterno, nucleo interno. Secondo questa ipotesi, ogni guscio conterrebbe minerali caratterizzati da particolari densità e proprietà fisiche. Nonostante questa tesi sia ormai accettata dalla maggior parte dei geofisici, come si comportino i materiali imprigionati nei diversi gusci a temperature e pressioni altissime rimane ancora un enigma.

Rappresentazione schematica di un atomoIntenzionato a risolvere almeno in parte questo intricato rebus, il prof. Jung-Fu Lin del Lawrence Livermore National Laboratory (California, USA) ha sottoposto un minerale ricco di ferro alle medesime condizioni in cui si trovano i minerali nel mantello inferiore a 2,000 km di profondità dalla crosta terrestre.
Studiando la reazione di questo minerale, il team di ricerca guidato da Jung-Fu ha osservato un progressivo schiacciamento e surriscaldamento degli atomi. Questo inatteso fenomeno ha avuto ricadute sulle proprietà globali del minerale, tra cui la capacità di rallentare o accelerare il passaggio delle onde sonore al proprio interno.

Per ottenere questo importante risultato, i ricercatori hanno utilizzato una particolare celletta ottenuta da un diamante, in grado di sopportare la fortissima pressione di 95 gigapascal (pari a 940 volte la pressione terrestre), e una luce laser molto potente per scaldare fino a 2.300 gradi Kelvin (circa 2.000° C) il campione di minerale da analizzare.
Queste condizioni estreme determinano una vera e propria rivoluzione a livello atomico, tale da modificare le orbite degli elettroni (le cariche elettriche che girano vorticosamente intorno al nucleo dell’atomo). Ed è proprio questo “salto” da un’orbita all’altra degli elettroni a modificare la densità del minerale e di conseguenza la sua reazione alle onde sonore.

Altamente viscoso, il magma è costituito da rocce allo stato liquido provenienti dal MantelloQuesta particolare scoperta potrebbe costringere i geofisici a rivedere alcune delle loro teorie. Lo studio della riflessione delle onde sonore, infatti, è alla base delle tecniche utilizzate per determinare i diversi tipi di roccia che costituiscono gli strati interni del nostro Pianeta. A seconda del grado e del tipo di rifrazione i ricercatori sono in grado di identificare, con un’approssimazione accettabile, la natura dei minerali che non possono materialmente analizzare perché “affogati” a centinaia di chilometri di profondità.
La ricerca del team guidato da Jung-Fu dimostrerebbe che uno stesso minerale potrebbe presentarsi con caratteristiche e proprietà diverse, anche a livello atomico, lungo buona parte degli strati che costituiscono la massa terrestre.

La scoperta di Jung-Fu Lin rappresenta un importante passo avanti per definire con maggiore precisione non solo la struttura intima del nostro Pianeta, ma anche il suo funzionamento.
E mentre a migliaia di chilometri di profondità immani forze sconvolgono e mantengono vivo il cuore della Terra, sulla minuscola porzione di crosta terrestre che popoliamo apriamo ogni giorno profonde cicatrici…

[fonte principale: Nature]