Il Mondo di notte

Questa affascinante e suggestiva immagine ritrae la Terra nelle fasi notturne di ogni meridiano.
L’inquinamento luminoso prodotto dalle grandi e medie concentrazioni urbane rende distinguibili numerose capitali, centri industriali e aree densamente popolate. Osservando attentamente l’immagine, è possibile notare come l’umanità abbia preferito stanziarsi principalmente nelle zone costiere. Emerge inoltre come le città più popolose si trovino a ridosso dei fiumi, le autostrade naturali ed economiche per lo scambio di beni e servizi.
Le zone meno illuminate del Pianeta risultano essere il Sud America, l’intero continente Africano (fatta eccezione per il Sud Africa e le coste sul Mediterraneo), parte dell’Asia e dell’Australia.
L’immagine è stata ottenuta attraverso un complesso e raffinato collage di centinaia di immagini fornite dal Defense Meteorological Satellite Program degli Stati Uniti.

Il mondo di notte (utilizzare le barre di navigazione del browser per scorrere l’immagine) [credit: . Mayhew & R. Simmon (NASA/GSFC), NOAA/ NGDC, DMSP Digital Archive]
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Gigantesco buco nero scoperto in una vicina galassia

Un team di astronomi ha identificato un buco nero caratterizzato da una massa eccezionalmente pesante, che orbita intorno alla propria stella compagna. Questa scoperta comporterà numerose conseguenze per lo studio dell’evoluzione e delle ultime fasi di vita delle stelle con una massa molto densa.

Rappresentazione artistica di M33/X-7 [credit: © NASA, CXC, M. Weiss]Il buco nero appena localizzato fa parte di un sistema binario (ovvero composto da due stelle che orbitano intorno a un baricentro comune) della galassia M33 a circa tre milioni di anni luce di distanza dalla Terra. Aggregando i dati forniti dal telescopio orbitale a raggi X Chandra della Nasa con quelli forniti dal telescopio terrestre Gemini (Hawaii – USA), è stato possibile stimare con precisione la massa del buco nero, battezzato M33/X-7, in 15.7 volte la massa del Sole. Questa peculiarità rendere M33/X-7 il buco nero più massivo finora scoperto nel Cosmo, formato dal collasso del nucleo di una stella nelle sue ultime fasi di vita.

La galassia M33 si trova a circa tre milioni di anni luce dalla Terra.“Questa scoperta solleva numerose domande su come si sia potuto creare un buco nero di queste incredibili dimensioni” ha dichiarato il prof. Jerome Orosz (San Diego State University – USA), che ha curato la ricerca pubblicata recentemente sull’autorevole rivista scientifica Nature.
M33/X-7 si trova in un sistema binario con una stella compagna che, ogni tre giorni e mezzo, eclissa il buco nero. Questo corpo celeste, inoltre, ha una massa molto ampia, stimabile in 70 volte quella del Sole, tale da renderla la stella maggiormente massiva mai osservata in un sistema binario comprendente un buco nero.

Le singolari proprietà di M33/X-7 e del suo sistema binario sono al momento un vero e proprio enigma per gli astronomi, che faticano a trovare una spiegazione attendibile sulla sua formazione utilizzando i tradizionali modelli di evoluzione dei corpi celesti caratterizzati da una massa molto grande. Alcuni astrofisici ipotizzano che la stella da cui originò il buco nero fosse molto più massiva rispetto alla stella compagna ancora visibile.
Grazie alle sue particolari proprietà, la scoperta di M33/X-7 potrà divenire un’ottima “palestra” per testare e verificare nuove teorie astronomiche legate alle stelle di grande massa.

A caccia di polvere di stelle

Nell’infinitamente piccolo di un granello di polvere potrebbero risiedere i segreti dell’infinitamente grande del Cosmo.
Fino ad ora la polvere di stelle aveva sempre costituito una fastidiosa seccatura per gli astronomi poiché rendeva inaccessibili alle potenti lenti dei telescopi le galassie più remote, assorbendo le radiazioni emesse dai corpi stellari. Recenti studi hanno invece dimostrato che un’analisi accurata della polvere stellare potrebbe portare a nuove conoscenze sul Cosmo. Quando assorbe l’energia dalle stelle, infatti, questa polvere cosmica emette una vasta gamma di radiazioni. Grazie all’aiuto di nuove e sofisticate strumentazioni, gli astrofisici potrebbero capire cosa si nasconda al di là dei densi strati di polvere stellare.

Nube di polvere cosmica [credit: NASA]Questa scoperta, che potrebbe portare a una nuova era nell’esplorazione del Cosmo, è stata resa possibile da un progetto dell’European Science Foundation cui ha collaborato l’astrofisico Simone Bianchi. “La tecnica di indagine che abbiamo affinato era già attuabile venti anni fa, ma grazie alle nuove tecnologie e strumentazioni possiamo ottenere dati molto più chiari e attendibili”.
Specifiche simulazioni al computer consentono, inoltre, di ricostruire con un’approssimazione accettabile la struttura delle galassie nascoste dalla polvere cosmica, anche quando è impossibile effettuare un’osservazione diretta dei corpi celesti. Il segreto risiede nel comportamento della polvere cosmica, che agisce come uno schermo su cui sono riprodotte le radiazioni emesse dalle stelle che nasconde.

Immagine termica di un aggregato di polvere cosmicaGrazie al lancio nel 2008 del satellite a infrarossi Herschel, progettato e costruito dall’Agenzia spaziale europea (ESA), sarà possibile analizzare con maggior precisione le radiazioni emesse dalla polvere cosmica. “Le nuove strumentazioni ci permetteranno di identificare aggregati di polveri anche in aree molto rarefatte del Cosmo” ha dichiarato entusiasta Bianchi.
Il lavoro del nuovo satellite dell’ESA aiuterà gli astronomi a comprendere con maggior precisione il ruolo rivestito dalla polvere cosmica nella formazione delle stelle. Un legame tra le polveri e i gas di cui le stelle sono costituite è già stato dimostrato, ma le relazioni intime che portano alla creazione di una stella restano ancora ignote e da indagare con particolare attenzione.

Il team di ricerca sulla polvere cosmica è un vero fiore all’occhiello per l’astrofisica europea e l’ESA che, dopo alcuni anni difficili, si sta finalmente ritagliando uno spazio più autonomo accanto ai grandi competitori d’oltreoceano.

Il continente indiano? Un velocista!

Un tempo, la placca continentale che comprende il subcontinente indiano era un vero e proprio velocista in grado di percorrere circa 20cm in un anno, una formula uno rispetto al lentissimo incedere delle altre placche continentali.

Rappresentazione grafica dell’interno della Terra [credit: Wikipedia]La litosfera, la porzione del nostro Pianeta compresa tra la crosta terrestre e la parte più superficiale del mantello, è costituita da 14 enormi placche che “galleggiano” sugli strati di roccia fusa del mantello superiore. Grazie ai moti convettivi, il continuo rimescolarsi di materiale magmatico dall’alto verso il basso, il mantello si comporta come un enorme tapis-roulant in grado di traslare le 14 placche che giacciono sulla sua superficie. Questo rende la struttura geofisica della Terra in continua evoluzione e, in migliaia di anni, ha consentito la creazione delle catene montuose e delle profondità oceaniche dei nostri tempi.

Da Gondwanaland ai moderni continenti in pochi secondi [credit: Wikipedia]Cinque delle 14 placche oggi esistenti appartenevano a un’unica gigantesca placca chiamata Gondwanaland che, circa 140 milioni di anni fa, iniziò a separarsi in virtù dell’effetto tapis-roulant contribuendo alla nascita dell’Africa, dell’Antartide, dell’India, dell’Australia e del Sud America. Molti dei frammenti originati da Gondwanaland iniziarono una lunga e lentissima deriva alla velocità di 5cm all’anno, impiegando milioni di anni per raggiungere la conformazione e la loro posizione attuale.
A differenza delle sue omologhe, la placca che avrebbe dato origine all’India iniziò a muoversi al quadruplo della velocità, compiendo circa 20cm di strada ogni anno, fino a collidere con estrema violenza contro l’area meridionale della placca asiatica, originando le altissime vette della catena montuosa dell’Himalaya.

Movimento della placca indiana verso il continente asiaticoMa che cosa permise alla placca indiana di muoversi così velocemente? Un gruppo di ricerca internazionale, costituito da indiani e tedeschi, potrebbe aver trovato la risposta. A differenza di quanto si fosse immaginato, la placca indiana è considerevolmente più sottile rispetto alle altre originate dalla separazione di Gondwanaland milioni di anni fa.
Utilizzando una nuova tecnica e un’innovativa strumentazione in grado di analizzate con precisione le onde sismiche e la loro velocità nell’attraversare la litosfera e i primi tratti del mantello, i ricercatori sono stati in grado di calcolare con precisione lo spessore della placca indiana. Grazie a 35 stazioni sismiche dislocate sul subcontinente indiano, si è scoperto che lo spessore medio della placca indiana si aggira intorno ai 100km, quasi un terzo rispetto allo spessore dell’antico supercontinente Gondwanaland.

Questa fondamentale scoperta, utile per capire e approfondire i meccanismi legati alla deriva dei continenti, sarà pubblicata domani sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.
Nella loro analisi, i ricercatori guidati dal prof. Rainer Kind (GeoForschungsZentrum, Germania) ipotizzano che la placca indiana sia così sottile poiché, quando ancora apparteneva a Gondwanaland, poggiava su una zona particolarmente calda del mantello che fuse i suoi strati rocciosi più profondi, riducendone lo spessore. Alleggerita da buona parte della propria zavorra, la placca sarebbe poi stata in grado di muoversi molto più rapidamente sul tapis-roulant creato dal mantello.
La scoperta del team di ricercatori tedeschi e indiani apre un nuovo capitolo nello studio della teoria della tettonica a zolle. Per la prima volta, infatti, i geologi sono riusciti a dimostrare un collegamento diretto tra spessore delle placche e velocità di traslazione durante la loro deriva. E la bellezza della catena montuosa dell’Himalaya non poteva essere testimonianza migliore…

Un polimero contro gli sprechi alimentari

Nonostante tutti gli sforzi profusi per ridurre al minimo gli sprechi, si stima che il 5% degli alimenti confezionati in bustine, bottigliette e tubi di plastica vengano gettati dai consumatori perché “imprigionati” nei loro contenitori.
L’impossibilità di ripulire a fondo le confezioni di alcuni cibi non comporta solamente uno spreco alimentare, ma costituisce anche un grave ostacolo per il riciclo dei materiali plastici con cui sono costruiti i contenitori.

La dottoressa Michaela Müller (Fraunhofer Institute for Interfacial Engineering and Biotechnology – Germania) è una esperta di polimeri, gli aggregati molecolari che danno origine alle macromolecole, e da anni si occupa di un innovativo progetto per creare nuovi materiali plastici per alimenti “refrattari” al cibo.
Per risolvere alla radice il problema, la dottoressa Müller ha elaborato un semplice processo per rivestire i contenitori dei cibi con un particolare strato antiaderente ottenuto grazie al plasma, un gas ionizzato costituito da elettroni e ioni con una carica globalmente neutra.

A differenza di quanto possa apparire, il procedimento ideato è incredibilmente semplice. Il contenitore da trattare viene inserito, con un elettrodo al suo interno e uno al suo esterno, in una piccola camera sottovuoto. Successivamente, un particolare gas polimerizzabile introdotto all’interno della camera sottovuoto viene esposto a una corrente elettrica. Questo procedimento attiva e rende incandescente il plasma, con un fenomeno del tutto analogo a quello osservabile nei comunissimi tubi a gas fluorescente, le famose “luci al neon”.
Grazie ai due elettrodi collocati all’esterno e all’interno, il plasma deposita un sottilissimo strato di un polimero all’interno del contenitore dello spessore di appena 20nanometri (un nanometro equivale a un milionesimo di millimetro).

La composizione del gas polimerizzabile utilizzato per il procedimento è gelosamente custodita dalla dottoressa Müller, che non intende ancora rivelarne i segreti. “Lo spessore di pochi nanometri consente al rivestimento di aderire perfettamente al contenitore senza lasciare residui o interagire minimamente con i cibi in esso contenuti” ha dichiarato entusiasta la ricercatrice.
Ciò che rende la scoperta della dottoressa Müller davvero interessante è la capacità del polimero di repellere numerosi alimenti. Il sottile strato del rivestimento è inoltre totalmente idrofobico, in grado cioè di respingere completamente le molecole d’acqua.

Nei prossimi due anni, la dottoressa Müller sarà impegnata nel difficile compito di elaborare polimeri specifici per differenti tipologie di alimenti, costituiti da percentuali molto diverse di acqua tra loro. La sua scoperta potrà essere applicata non solo alle bottiglie di ketchup o alle confezioni di maionese, ma anche ai cosmetici, ai prodotti chimici, agli oli dei motori e a qualsiasi altra sostanza che tende a rilasciare residui nel contenitore che la ospita.
I polimeri elaborati dalla dottoressa Müller e dai suoi collaboratori potrebbero far risparmiare centinaia di milioni di Euro ogni anno, riducendo al minimo gli sprechi e rendendo più semplici ed efficienti i processi di riciclaggio delle materie plastiche. Una buona notizia per tutti, anche per l’ambiente.

I migliori scatti fotografici al microscopio del 2007

Dal 1974, Nikon indice ogni anno l’International Small World Competition (ISWC) per premiare i migliori scatti fotografici al microscopio e diffondere la cultura scientifica tra i profani.
Secondo la giuria della Nikon, che seleziona ogni anno i premiati, una fotografia al microscopio non è solamente un mezzo per capire la scienza, ma anche un’opera d’arte densa di colori e strutture in grado di creare un’esperienza estetica unica nel suo genere.
Al concorso possono partecipare tutti coloro che sono interessati nella fotografia al microscopio, provenienti da qualsiasi paese del mondo e non necessariamente professionisti.

Ecco gli scatti premiati nel 2007…

photo credit: Gloria Kwon, Memorial Sloan-Kettering Institute

Gloria Kwon, del Memorial Sloan-Kettering Institute (NY – USA), si è aggiudicata il primo premio con questa magnifica fotografia del tardo stadio evolutivo di un embrione di topolino. In verde si nota il sacco amniotico in formazione, l’immagine è ingrandita 17 volte.

photo credit: Michael Hendricks, Temasek Life Sciences Laboratory

Al secondo posto si è classificato Michael Hendricks, del Temasek Life Sciences Laboratory (Singapore), con questo ingrandimento di 20 volte del cervello di un embrione di Danio rerio di appena tre giorni. L’immagine illustra efficacemente la complessa rete neuronale in formazione nell’encefalo del minuscolo pesce d’acqua dolce.

photo credit: Wim van Egmond, Micropolitan Museum

Con questo bellissimo scatto, Wim van Egmond, del Micropolitan Museum (UK), ha conquistato il gradino più basso del podio. L’immagine rappresenta un esemplare di Rotifero, un minuscolo animaletto acquatico, ingrandito 400 volte.

photo credit: Charles Krebs, Charles Krebs Photography

Quarta posizione per Charles Krebs, che ha immortalato queste meravigliose alga al microscopio. Si tratta di un gruppo di Diatomee, un tipo particolare di plancton vegetale, ancorate a un esemplare di Polysiphonia, un’alga dal caratteristico colore rossastro. Questa caleidoscopica immagine è ingrandita 100 volte.

photo credit: Peter Parks, Imagequestmarine.com

Al quinto posto troviamo questa bellissima immagine realizzata da Peter Parks. Il fotografo è riuscito a creare questa composizione grazie a una particolare macchina fotografica ad altissima definizione, in grado di osservare i minuscoli microorganismi racchiusi in una goccia d’acqua marina.

photo credit: Charles Krebs, Charles Krebs Photography

Al sesto posto troviamo nuovamente Charles Krebs, con questo incredibile primo piano di una larva di coleottero acquatico. Le possenti mandibole di questo insetto sono ideali per la predazione, ma niente paura… l’immagine è ingrandita 100 volte.

photo credit: Michael Klymkowsky, MCD Biology, University of Colorado at Boulder

Settimo posto per Michael Klymkowsky, del MCD Biology – University of Colorado at Boulder (USA), e il suo scatto al microscopio di due embrioni di ranocchia. La fotografia è stata scattata per studiare le proprietà della proteina SOX3, prima responsabile nella suddivisione cellulare in questo tipo di embrioni.

photo credit: Vera Hunnekuhl, Department of Zoology, University of Osnabrück

Vera Hunnekuhl, del dipartimento di zoologia della University of Osnabrück (Germania), ha ottenuto l’ottava posizione con questa fotografia al microscopio dei fasci muscolari e dell’apparato nervoso di una sanguisuga, con un ingrandimento di 25 volte.

photo credit: Shamuel Silberman, Ramat Gan, Israel

Nona posizione per Shamuel Silberman, Ramat Gan (Israele), e per la sua fotografia di un bocciolo di papavero ingrandito 20 volte.

photo credit: Dr. Stephen Nagy, Montana Diatoms

La “top ten” dei migliori scatti al microscopio del 2007 si conclude con l’immagine ripresa da Stephen Nagy, del Montana Diatoms (USA), che raffigura un montaggio di alcuni frammenti di avorio utilizzati per evidenziarne la particolare conformazione.