Scoperto gigantesco fossile di dinosauro in Patagonia

Dopo sette anni di duro lavoro, un gruppo di paleontologi brasiliani ed argentini ha dichiarato di aver scoperto i resti fossili di una nuova specie di dinosauro gigante, vissuto in Patagonia circa 80 milioni di anni fa durante il Cretaceo.
Il Futalognkosaurus, questo il suo nome, era alto quanto un palazzo di quattro piani, aveva un collo dieci volte più lungo di quello di una giraffa adulta ed è stato probabilmente il più grande dinosauro vegetariano della storia.

Rappresentazione artistica del Futalognkosaurus dukei [photo credit: Arthur Weasley]I resti fossili, molto ben conservati, della struttura scheletrica hanno consentito ai ricercatori di ricostruire con precisione la fisionomia del mastodontico dinosauro. Dalla testa alla lunga coda, il Futalognkosaurus misurava circa 33 metri, con un incredibile e lunghissimo collo lungo circa 17 metri.
Presentazione dei resti fossili del Futalognkosaurus durante una conferenza stampa [photo credit: AP] “Si tratta di una nuova specie mai rinvenuta prima” ha dichiarato entusiasta il paleontologo Juan Porfiri durante una conferenza stampa a Rio de Janeiro. “Il collo del Futalognkosaurus aveva dimensioni incredibili, con un ampio diametro e forti fasce muscolari per sorreggerlo.” I resti fossili della struttura ossea sono completi al 70% e testimoniano l’enorme mole di uno dei dinosauri più grandi al mondo finora conosciuti, il fossile della sola colonna vertebrale pesa più di otto tonnellate.

Il nome Futalognkosaurus Dukei deriva dalla lingua indigena dei Mapuche, gli abitanti del Regno di Araucanía – Patagonia, e significa “gran capo delle lucertole”. Il secondo nome, Dukei, deriva invece dalla compagnia statunitense Duke Energy Corp che ha finanziato buona parte degli scavi e del lavoro dei ricercatori in Argentina.

Resti fossili del Futalognkosaurus [photo credit: National Museum of Brazil]Paleontologi ed esperti di preistoria non hanno dubbi, i resti fossili di questo enorme dinosauro rinvenuti vicino al lago Barreales appartengono a una nuova specie ancora sconosciuta.
Con il ritrovamento del Futalognkosaurus, l’area geografica della Patagonia si dimostra ancora una volta un prezioso giacimento di fossili preistorici. In questa zona dell’America meridionale furono ritrovati i resti di altri due mastodontici dinosauri: l’Argentinosaurus, lungo circa 35 metri, e il Puertasaurus reuili, lungo quasi 40 metri.

Monossido di Carbonio, da veleno letale a medicinale

Nonostante la sua cattiva reputazione, il monossido di carbonio (CO) potrebbe rivelarsi un ottimo elemento per salvare vite umane e curare numerose patologie.
Un gruppo di chimici dell’University of Sheffield (UK) ha scoperto un metodo innovativo per utilizzare in maniera mirata minuscole dosi di CO per curare i pazienti che hanno da poco subito operazioni cardiache, trapianti d’organo o che soffrono di ipertensione.

Monossido di CarbonioAssunto in dosi massicce il monossido di carbonio può rivelarsi letale, ma in piccole quantità può aiutare a ridurre le infiammazioni, ripristinare il corretto lume (l’ampiezza) delle arterie, incrementare il flusso sanguigno, prevenire la formazione di coaguli e reprimere le dinamiche di rigetto che spesso causano gravi problemi a chi ha subito un trapianto d’organi.
I ricercatori britannici hanno sviluppato un’innovativa molecola solubile in acqua che, non appena viene ingerita o iniettata per endovenosa, rilascia in maniera sicura e controllata minuscole quantità di CO all’interno dell’organismo.
Il ruolo svolto dal monossido di carbonio nel regolare il nostro sistema immunitario era già noto da una decina di anni, ma nessuno era ancora riuscito a sviluppare una via affidabile e sicura per somministrare CO ai pazienti. Il metodo per inalazione, utilizzato da diversi anni, esponeva i pazienti a numerosi effetti collaterali e metteva anche a rischio lo stesso personale sanitario. Ora, per la prima volta, grazie alla chimica sarà possibile sviluppare nuovi formaci in grado di rilasciare CO in maniera controllata e sicura.

Prof. Brian Mann, coordinatore del team di ricercatori sul CO“La nostra molecola si dissolve completamente nell’acqua, è quindi di semplicissima somministrazione ed è in grado di raggiungere molto velocemente il flusso sanguigno” ha dichiarato il prof. Brian Mann, che ha coordinato il team di ricercatori. “Oltre a poter creare molecole sicure in grado di rilasciare CO, potremo anche sviluppare strutture molecolari per terapie estremamente mirate che interesseranno unicamente le parti dell’organismo da curare”.
Le molecole ideate dal gruppo di ricercatori della University of Sheffield sono costituite da gruppi carbonilici legati a metalli come il rutenio, il ferro e il manganese, già ampiamente testati e utilizzati nei trattamenti sanitari. Queste molecole possono essere progettate per rilasciare monossido di carbonio in periodi che variano da 30 minuti a un paio d’ore, a seconda delle necessità legate alle condizioni del paziente.

Entro due anni i ricercatori intendono iniziare i primi test clinici, fondamentali per verificare l’efficacia della loro scoperta, resa nota dall’Engineering and Physical Sciences Research Council (EPSRC), che potrebbe tradursi in una nuova generazione di medicinali in circa cinque anni.
Queste innovative molecole stanno destando molto interesse in ambiente scientifico e sanitario. Le loro incredibili potenzialità potrebbero contribuire a ridurre sensibilmente i tempi di recupero dopo un’operazione chirurgica, alleggerendo e ottimizzando considerevolmente il carico di lavoro per ospedali e personale medico.

Diagnosticare l’Alzheimer dalle proteine del sangue

Una ricerca condotta su alcuni pazienti affetti da Alzheimer ha rilevato l’esistenza di alcune specifiche proteine nel sangue che potrebbero essere utilizzate per diagnosticare il “morbo dell’oblio” in maniera precoce ed efficace.
L’unico metodo finora utilizzato dai medici per diagnosticare l’Alzheimer prevede una serie di analisi mirate ad escludere altre possibili patologie. A oggi, infatti, non esiste un test definitivo per questa terribile malattia, se non l’analisi post mortem dei tessuti cerebrali e dei marcatori del morbo.

Area in cui è riscontrabile la presenza dell’Alzheimer nel cerebro umanoDopo numerosi anni di studio, il neurologo Tony Wyss-Coray (Stanford University School of Medicine in California) ha recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Medicine i sorprendenti risultati delle sue ricerche sui biomarcatori dell’Alzheimer, la “firma” del morbo riscontrabile negli individui affetti dalla malattia.
Grazie all’impegno del suo gruppo di ricercatori, Wyss-Coray ha identificato una combinazione particolare di 18 proteine in grado di indicare la presenza – anche nei primissimi stadi – del morbo di Alzheimer. Se i prossimi test confermeranno l’importante scoperta, sarà possibile diagnosticare la malattia con un banalissimo esame del sangue. Le persone positive al test potrebbero così iniziare da subito le terapie, oggi sempre più mirate, tese a rallentare i devastanti effetti dell’Alzheimer.

Neuroni sani a confronto con neuroni danneggiati dal morbo di Alzheimer [photo credit: GHI]Per raggiungere questo promettente risultato, i ricercatori guidati da Wyss-Coray hanno esaminato le proteine presenti in 259 campioni di sangue, provenienti da individui affetti o meno dalla malattia. Il team di ricerca ha poi focalizzato la propria attenzione sulle 120 proteine maggiormente utilizzate dalle cellule per comunicare tra loro, e su un gruppo di 18 aggregati proteici rinominato communicode. “Abbiamo pensato che queste proteine, presenti nel sangue, potessero portare qualche traccia dal cervello sulla presenza o meno della malattia” ha dichiarato un entusiasta Wyss-Coray.
I ricercatori hanno notato che un set di 18 proteine “addette alle comunicazioni” si presentavano con livelli di concentrazione molto differenti tra gli individui affetti da Alzheimer e tra quelli sani. Comparando i risultati dei test effettuati su 20 pazienti, cui era già stato diagnosticato il morbo, il team di ricerca ha dimostrato come la forte concentrazione del set di 18 proteine sia un indicatore molto affidabile per rilevare la presenza dell’Alzheimer.

La scoperta di Wyss-Coray potrebbe condurre presto a un nuovo test per verificare, in maniera molto più affidabile e diretta, la presenza dell’Alzheimer. La diagnosi precoce del morbo è fondamentale per arginare da subito i suoi effetti devastanti.
Nonostante ad oggi non esista una cura definitiva per il morbo, i numerosi protocolli terapeutici affinati in questi ultimi anni consentono di rallentare drasticamente la corsa dell’Alzheimer che porta chi ne è affetto a un inesorabile oblio.

Giapeto, la luna bifronte

Giapeto è l’unica luna bicolore finora conosciuta nel nostro sistema solare. [photo credit: NASA/JPL/Space Science Institute]Era il 25 ottobre del 1671 quando l’astronomo Gian Domenico Cassini osservò per la prima volta Giapeto, il terzo satellite naturale (per dimensione) di Saturno.
Quasi tre secoli e mezzo dopo, la medesima luna è stata osservata e fotografata da una sonda spaziale della NASA, naturalmente intitolata a Cassini, il grande astronomo italiano.

Area di transizione tra emisfero chiaro ed emisfero scuro di Giapeto [photo credit: NASA/JPL/Space Science Institute]Grazie a questa magnifica immagine, scattata nei primi giorni di settembre di quest’anno e da poco rilasciata dalla NASA, si può apprezzare la particolare conformazione di Giapeto, chiara e scura sia di giorno che di notte, così come è apparsa ai sofisticati sensori della sonda Cassini.
La superficie di Giapeto ha infatti una particolare colorazione a due toni. Un emisfero è perennemente scuro, con lievi torni che virano al rosso, mentre l’altra metà della luna e perennemente chiara e brillante. Già nel diciassettesimo secolo Gian Domenico Cassini aveva rilevato questa particolarità del satellite, che rendeva Giapeto visibile solo su un lato di Saturno e non sull’altro.

Il lato chiaro di Giapeto [photo credit: NASA/JPL/Space Science Institute]Per secoli sono state proposte numerose ipotesi per spiegare la particolare colorazione “bigusto” del satellite. A chi ipotizzava una causa endogena, dovuta alla conformazione geologica della luna, si contrapponevano coloro convinti che la doppia colorazione fosse dovuta ai materiali raccolti da Giapeto nel corso della sua orbita intorno al pianeta Saturno.
Il volo ravvicinato, appena a 1640km di altezza, da poco effettuato dalla sonda Cassini ha fornito immagini dettagliatissime che potranno finalmente contribuire alla risoluzione dell’enigma legato a Giapeto. Il lato chiaro del satellite parrebbe infatti ricoperto da uno strato di ghiaccio bianchissimo, “sporcato” da materiali scuri probabilmente fuoriusciti dall’interno stesso della luna.
Lo Yin e Yang del Cosmo è servito…

Scoperto nuovo meccanismo dell’udito

Un gruppo di ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology – USA) ha scoperto un nuovo meccanismo dell’udito che rivoluziona sostanzialmente le conoscenze sull’orecchio interno. Questo nuovo meccanismo potrebbe essere molto utile non solo per spiegare l’incredibile capacità del nostro orecchio di distinguere con estrema precisione suoni e rumori, ma anche per sviluppare sistemi più efficienti per il recupero dell’udito.

Schema della struttura dell’orecchio interno [photo credit: Wikipedia]La ricerca, pubblicata qualche giorno fa sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, è stata guidata dal prof. Dennis M. Freeman del MIT che ha evidenziato come la membrana tettoriale (una sostanza gelatinosa contenuta nella coclea) rivesta un ruolo molto più importante di quanto immaginato nel percepire e distinguere i suoni.
La membrana tettoriale è infatti in grado di ricevere e trasmettere impulsi in numerose zone della coclea attraverso particolari onde, del tutto diverse da quelle già conosciute e comunemente associate all’udito.
Per oltre un secolo si è ipotizzato che all’interno della coclea le onde sonore fossero trasformate e condotte attraverso una particolare struttura chiamata membrana basilare, presente nel canale cocleare. Il team di ricercatori del MIT ha invece scoperto che un diverso tipo di onda, tenuto da sempre in scarsa considerazione per la sua particolare conformazione, è ugualmente in grado di trasmettere i suoni. Questa onda agisce sulla membrana tettoriale, una parte della coclea collocata al di sopra delle cellule sensoriali dell’udito deputate a ricevere e trasmettere informazioni al cervello. Secondo i ricercatori del MIT, questo secondo tipo di onda rivestirebbe un ruolo fondamentale nel trasmettere gli impulsi sonori alle cellule dell’udito.

Spaccato dell’apparato cocleare [photo credit: Wikipedia]Banalizzando molto, possiamo dire che il nostro orecchio interno è in grado di trasformare meccanicamente le onde sonore in due tipi differenti di onde, caratterizzate da un diverso modo di muoversi nello spazio. Queste onde possono interagire per stimolare le cellule dell’udito e migliorarne la sensibilità, tanto da consentirci di udire suoni molto deboli o disturbati.
L’interazione tra i due tipi di onde sonore, create meccanicamente dal nostro orecchio interno, potrebbe essere la chiave per spiegare l’incredibile fedeltà con cui riusciamo a riconoscere suoni e rumori.
“Sappiamo che l’orecchio umano è estremamente sensibile – ha dichiarato il prof. Freeman – ma non sappiamo ancora quale meccanismo consenta al nostro udito di essere così preciso. La nostra ricerca ha però evidenziato, per la prima volta, un nuovo meccanismo cui nessuno aveva ancora pensato, che potrebbe aprirci nuove strade per risolvere l’enigma dell’udito”.

La scoperta del prof. Freeman e del suo team di ricerca ha evidenziato quanto la conoscenza della struttura intima del nostro orecchio sia ancora da approfondire e studiare. L’inaspettato ruolo della membrana tettoriale nella trasmissione e nel riconoscimento delle onde sonore potrà portare a una nuova generazione di apparati cocleari artificiali, maggiormente sensibili e affidabili, per strappare dall’oblio del silenzio migliaia di persone affette da gravi patologie uditive.

Groenlandia: scioglimento record dei ghiacci

I ghiacciai presenti nell’entroterra della Groenlandia si stanno sciogliendo molto più rapidamente del previsto. È questa l’inquietante conclusione cui è giunto un team di ricercatori del Danish National Space Centre della Technical University of Denmark.

Un canyon di ghiaccio causato dal progressivo discioglimento in GroenlandiaOgni anno, nella parte sud-orientale della Groenlandia, i ghiacciai danno origine a una enorme massa di iceberg pari a un cubo di 6,5km³. Ciò comporta una sensibile diminuzione dei ghiacciai dell’entroterra, che non riescono a ripristinare le ingenti quantità di ghiaccio portate via dal rapido disgelo.
Al momento, i ghiacciai si stanno sciogliendo quattro volte più rapidamente rispetto dieci anni fa. “Con questi ritmi, l’acqua discioltasi durante il disgelo potrebbe causare un aumento del livello dei mari di almeno 60cm in buona parte del Pianeta” ha dichiarato il prof Abbas Khan, responsabile del progetto di ricerca sul disgelo in Groenlandia.

I risultati delle rilevazioni di Khan sono stati recentemente pubblicati sulla blasonata rivista scientifica Geophysical Research Letters.
Le misurazioni così accurate del disgelo sono state rese possibili da sofisticate stazioni di rilevamento GPS, dislocate in questi anni nei punti maggiormente critici e sensibili ai cambiamenti atmosferici dei ghiacciai della Groenlandia.
I dati raccolti dai sistemi GPS hanno dimostrato come i ghiacci sulle montagne sud-orientali si stiano ritirando molto rapidamente, causando l’assottigliamento dei ghiacciai dell’entroterra, che potrebbero perdere 100m di spessore all’anno.

La scoperta di Khan e del suo team dimostra quanto una zona così vitale per l’equilibrio termico dell’intero Pianeta come la Groenlandia sia estremamente sensibile ai cambiamenti climatici di questi ultimi anni.