Nelle profondità degli oceani per studiare i terremoti

Una delle più ambiziose ricerche scientifiche mai realizzate dall’uomo è stata da pochi giorni avviata al largo delle coste del Giappone. Progettata per svelare i misteri legati alle dinamiche dei terremoti, la ricerca sarà condotta da un team internazionale di rilievo.

Chikyu sormontata dall’enorme trivella montata sul ponte [credit: web.missouri.edu]Nel corso dei prossimi mesi, ricercatori britannici e giapponesi studieranno una particolare zona di subduzione (un’area in cui una placca litosferica oceanica scivola al di sotto di una placca continentale) a bordo della nave-trivella Chikyu, che in giapponese significa “Cuore della Terra”. Dotata di tecnologie molto sofisticate e di una potente torre di trivellazione all’avanguardia, l’imbarcazione è al suo viaggio di debutto e consentirà ai ricercatori di analizzare con estrema precisione le caratteristiche più intime della crosta terrestre.

Rappresentazione schematica della nascita di uno tsunami [credit: static.howstuffworks.com]I terremoti dovuti alla subduzione, ovvero allo scorrimento di due placche, sono i più potenti e devastanti eventi che si verificano sul nostro Pianeta, causando spesso catastrofi di immane violenza come il terribile tsunami del 2004 che sconvolse il sud-est asiatico. A causa della sua conformazione geologica, il Giappone è tra i posti al mondo maggiormente soggetti ai terremoti. Trattandosi di una questione vitale e di sopravvivenza, da sempre le autorità giapponesi investono enormi risorse per studiare e capire le dinamiche dei terremoti. Non stupiscono dunque l’enormità del progetto e gli obiettivi ambiziosi prefissati per le fasi di ricerca a bordo della Chikyu.

Per la prima volta nella storia, infatti, verrà effettuata una trivellazione a oltre 3.500m di profondità a partire dal fondale marino. Dopo una prima fase dedicata alla raccolta di dati e all’installazione di particolari sensori, le trivelle dell’imbarcazione proseguiranno il loro viaggio nelle viscere della Terra raggiungendo i 6.000 metri di profondità dal fondale marino. Particolari braccia robotizzate provvederanno a prelevare campioni della crosta e a collocare alcuni rilevatori in grado di calcolare i movimenti sismici legati all’azione di subduzione.
Questa ciclopica impresa consentirà di studiare i materiali rocciosi della crosta terrestre, affinando le conoscenze sulla dinamiche fisiche che portano ai violenti terremoti in quell’area del Pacifico.

Il continente indiano? Un velocista!

Un tempo, la placca continentale che comprende il subcontinente indiano era un vero e proprio velocista in grado di percorrere circa 20cm in un anno, una formula uno rispetto al lentissimo incedere delle altre placche continentali.

Rappresentazione grafica dell’interno della Terra [credit: Wikipedia]La litosfera, la porzione del nostro Pianeta compresa tra la crosta terrestre e la parte più superficiale del mantello, è costituita da 14 enormi placche che “galleggiano” sugli strati di roccia fusa del mantello superiore. Grazie ai moti convettivi, il continuo rimescolarsi di materiale magmatico dall’alto verso il basso, il mantello si comporta come un enorme tapis-roulant in grado di traslare le 14 placche che giacciono sulla sua superficie. Questo rende la struttura geofisica della Terra in continua evoluzione e, in migliaia di anni, ha consentito la creazione delle catene montuose e delle profondità oceaniche dei nostri tempi.

Da Gondwanaland ai moderni continenti in pochi secondi [credit: Wikipedia]Cinque delle 14 placche oggi esistenti appartenevano a un’unica gigantesca placca chiamata Gondwanaland che, circa 140 milioni di anni fa, iniziò a separarsi in virtù dell’effetto tapis-roulant contribuendo alla nascita dell’Africa, dell’Antartide, dell’India, dell’Australia e del Sud America. Molti dei frammenti originati da Gondwanaland iniziarono una lunga e lentissima deriva alla velocità di 5cm all’anno, impiegando milioni di anni per raggiungere la conformazione e la loro posizione attuale.
A differenza delle sue omologhe, la placca che avrebbe dato origine all’India iniziò a muoversi al quadruplo della velocità, compiendo circa 20cm di strada ogni anno, fino a collidere con estrema violenza contro l’area meridionale della placca asiatica, originando le altissime vette della catena montuosa dell’Himalaya.

Movimento della placca indiana verso il continente asiaticoMa che cosa permise alla placca indiana di muoversi così velocemente? Un gruppo di ricerca internazionale, costituito da indiani e tedeschi, potrebbe aver trovato la risposta. A differenza di quanto si fosse immaginato, la placca indiana è considerevolmente più sottile rispetto alle altre originate dalla separazione di Gondwanaland milioni di anni fa.
Utilizzando una nuova tecnica e un’innovativa strumentazione in grado di analizzate con precisione le onde sismiche e la loro velocità nell’attraversare la litosfera e i primi tratti del mantello, i ricercatori sono stati in grado di calcolare con precisione lo spessore della placca indiana. Grazie a 35 stazioni sismiche dislocate sul subcontinente indiano, si è scoperto che lo spessore medio della placca indiana si aggira intorno ai 100km, quasi un terzo rispetto allo spessore dell’antico supercontinente Gondwanaland.

Questa fondamentale scoperta, utile per capire e approfondire i meccanismi legati alla deriva dei continenti, sarà pubblicata domani sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.
Nella loro analisi, i ricercatori guidati dal prof. Rainer Kind (GeoForschungsZentrum, Germania) ipotizzano che la placca indiana sia così sottile poiché, quando ancora apparteneva a Gondwanaland, poggiava su una zona particolarmente calda del mantello che fuse i suoi strati rocciosi più profondi, riducendone lo spessore. Alleggerita da buona parte della propria zavorra, la placca sarebbe poi stata in grado di muoversi molto più rapidamente sul tapis-roulant creato dal mantello.
La scoperta del team di ricercatori tedeschi e indiani apre un nuovo capitolo nello studio della teoria della tettonica a zolle. Per la prima volta, infatti, i geologi sono riusciti a dimostrare un collegamento diretto tra spessore delle placche e velocità di traslazione durante la loro deriva. E la bellezza della catena montuosa dell’Himalaya non poteva essere testimonianza migliore…

Nel cuore del Pianeta

Rappresentazione grafica dell’interno della Terra [credit: Wikipedia]Nel suo romanzo Viaggio al centro della Terra (1864), Jules Verne racconta l’incredibile e avvincente storia di una spedizione che si avventura nelle viscere di un vulcano per raggiungere il centro del Pianeta.
Nel corso di oltre un secolo, il magnifico racconto di Verne ha stimolato la fantasia non solo dei lettori, ma anche dei tanti geologi che da sempre si interrogano sulla misteriosa natura intima della Terra. Paradossalmente, infatti, conosciamo molte più cose sull’angolo di Universo in cui si trova la nostra galassia rispetto al “ripieno” del nostro Pianeta.
Grazie ai dati forniti dalle rilevazioni sismografiche, si è giunti a immaginare la Terra come un’enorme serie di matrioske suddivisa in numerosi “gusci”: crosta (la superficie su cui viviamo), mantello superiore, mantello inferiore, nucleo esterno, nucleo interno. Secondo questa ipotesi, ogni guscio conterrebbe minerali caratterizzati da particolari densità e proprietà fisiche. Nonostante questa tesi sia ormai accettata dalla maggior parte dei geofisici, come si comportino i materiali imprigionati nei diversi gusci a temperature e pressioni altissime rimane ancora un enigma.

Rappresentazione schematica di un atomoIntenzionato a risolvere almeno in parte questo intricato rebus, il prof. Jung-Fu Lin del Lawrence Livermore National Laboratory (California, USA) ha sottoposto un minerale ricco di ferro alle medesime condizioni in cui si trovano i minerali nel mantello inferiore a 2,000 km di profondità dalla crosta terrestre.
Studiando la reazione di questo minerale, il team di ricerca guidato da Jung-Fu ha osservato un progressivo schiacciamento e surriscaldamento degli atomi. Questo inatteso fenomeno ha avuto ricadute sulle proprietà globali del minerale, tra cui la capacità di rallentare o accelerare il passaggio delle onde sonore al proprio interno.

Per ottenere questo importante risultato, i ricercatori hanno utilizzato una particolare celletta ottenuta da un diamante, in grado di sopportare la fortissima pressione di 95 gigapascal (pari a 940 volte la pressione terrestre), e una luce laser molto potente per scaldare fino a 2.300 gradi Kelvin (circa 2.000° C) il campione di minerale da analizzare.
Queste condizioni estreme determinano una vera e propria rivoluzione a livello atomico, tale da modificare le orbite degli elettroni (le cariche elettriche che girano vorticosamente intorno al nucleo dell’atomo). Ed è proprio questo “salto” da un’orbita all’altra degli elettroni a modificare la densità del minerale e di conseguenza la sua reazione alle onde sonore.

Altamente viscoso, il magma è costituito da rocce allo stato liquido provenienti dal MantelloQuesta particolare scoperta potrebbe costringere i geofisici a rivedere alcune delle loro teorie. Lo studio della riflessione delle onde sonore, infatti, è alla base delle tecniche utilizzate per determinare i diversi tipi di roccia che costituiscono gli strati interni del nostro Pianeta. A seconda del grado e del tipo di rifrazione i ricercatori sono in grado di identificare, con un’approssimazione accettabile, la natura dei minerali che non possono materialmente analizzare perché “affogati” a centinaia di chilometri di profondità.
La ricerca del team guidato da Jung-Fu dimostrerebbe che uno stesso minerale potrebbe presentarsi con caratteristiche e proprietà diverse, anche a livello atomico, lungo buona parte degli strati che costituiscono la massa terrestre.

La scoperta di Jung-Fu Lin rappresenta un importante passo avanti per definire con maggiore precisione non solo la struttura intima del nostro Pianeta, ma anche il suo funzionamento.
E mentre a migliaia di chilometri di profondità immani forze sconvolgono e mantengono vivo il cuore della Terra, sulla minuscola porzione di crosta terrestre che popoliamo apriamo ogni giorno profonde cicatrici…

[fonte principale: Nature] 

Il chilo in calo

kg.jpgL’ultracentenario cilindro utilizzato come punto di riferimento per l’unità di misura base del Sistema Internazionale sta misteriosamente perdendo peso.

Creato nel 1875, il prototipo internazionale del chilogrammo (Le Grand Kilo) è un cilindro retto a base circolare che misura 39 mm in altezza e diametro, composto da una lega di iridio e platino, gelosamente conservato al Bureau International des Poids et Mesures a Sèvres, vicino Parigi, in Francia.

A dare la notizia della misteriosa perdita di peso è stato Richard Davis, uno dei fisici responsabili dell’Ufficio internazionale di pesi e misure. Secondo le rilevazioni, il prototipo internazionale del chilogrammo avrebbe perso quasi 50 microgrammi se comparato con le decine di copie del prototipo create dal 1875 a oggi.
“Ciò che davvero mi sorprende – ha confidato Davis alla stampa – è che tutti i campioni derivati dal prototipo sono stati creati col medesimo materiale, e molti furono costruiti nello stesso periodo e nelle stesse condizioni. Eppure, le loro masse iniziano lentamente a differenziarsi. Al momento non abbiamo alcuna spiegazione attendibile per questo misterioso fenomeno”. Leggi tutto “Il chilo in calo”

Leggere nel tempo

Immaginate di aprire un documento che non sia stato più letto da nessuno da almeno duemila anni. Alcuni ricercatori inglesi stanno per vivere il brivido di un repentino viaggio nel tempo, grazie a una potente strumentazione a raggi-X sarà infatti possibile leggere per la prima volta una serie di antichissime pergamene ritrovate nel Mar Morto. Questa documentazione, dall’inestimabile valore, era stata trovata qualche tempo fa, ma a causa dell’estrema fragilità della pergamena non era stato possibile srotolare i rotoli per leggerne il contenuto.

sincrotrone.jpgIl potente “paio di occhiali” utilizzato dai ricercatori sfrutterà le proprietà dei raggi-X, leggendo il contenuto dei documenti senza doverli nemmeno sfogliare. Questa enorme macchina per radiografie è un sincrotrone e funziona emettendo elettroni (le particelle che orbitano intorno all’atomo) a grandissima velocità in un enorme tunnel circolare. Guidati dagli ondulatori (sistemi di magneti), gli elettroni sono obbligati a percorrere una traiettoria vincolata che determina la produzione di radiazioni nello spettro dei raggi-X. Banalizzando molto, potete immaginare il sincrotrone come una giostra in grado di far girare a velocità poco al di sotto della luce gli elettroni. In genere sulle giostre, specie quelle veloci, si urla… Gli elettroni ovviamente non urlano, ma lasciano come traccia del loro vorticoso girare le radiazioni che, debitamente incanalate, possono essere utilizzate per analizzare le proprietà dei campioni di laboratorio. Leggi tutto “Leggere nel tempo”