Groenlandia: scioglimento record dei ghiacci

I ghiacciai presenti nell’entroterra della Groenlandia si stanno sciogliendo molto più rapidamente del previsto. È questa l’inquietante conclusione cui è giunto un team di ricercatori del Danish National Space Centre della Technical University of Denmark.

Un canyon di ghiaccio causato dal progressivo discioglimento in GroenlandiaOgni anno, nella parte sud-orientale della Groenlandia, i ghiacciai danno origine a una enorme massa di iceberg pari a un cubo di 6,5km³. Ciò comporta una sensibile diminuzione dei ghiacciai dell’entroterra, che non riescono a ripristinare le ingenti quantità di ghiaccio portate via dal rapido disgelo.
Al momento, i ghiacciai si stanno sciogliendo quattro volte più rapidamente rispetto dieci anni fa. “Con questi ritmi, l’acqua discioltasi durante il disgelo potrebbe causare un aumento del livello dei mari di almeno 60cm in buona parte del Pianeta” ha dichiarato il prof Abbas Khan, responsabile del progetto di ricerca sul disgelo in Groenlandia.

I risultati delle rilevazioni di Khan sono stati recentemente pubblicati sulla blasonata rivista scientifica Geophysical Research Letters.
Le misurazioni così accurate del disgelo sono state rese possibili da sofisticate stazioni di rilevamento GPS, dislocate in questi anni nei punti maggiormente critici e sensibili ai cambiamenti atmosferici dei ghiacciai della Groenlandia.
I dati raccolti dai sistemi GPS hanno dimostrato come i ghiacci sulle montagne sud-orientali si stiano ritirando molto rapidamente, causando l’assottigliamento dei ghiacciai dell’entroterra, che potrebbero perdere 100m di spessore all’anno.

La scoperta di Khan e del suo team dimostra quanto una zona così vitale per l’equilibrio termico dell’intero Pianeta come la Groenlandia sia estremamente sensibile ai cambiamenti climatici di questi ultimi anni.

Il Mondo senza di noi

Pianetazzurro Additato come il primo responsabile dei profondi cambiamenti climatici che iniziano a verificarsi nel nostro Pianeta, il genere umano non gode di moltissima stima nella biosfera. Ma cosa accadrebbe se di colpo gli oltre sei miliardi di esseri umani che popolano la Terra scomparissero improvvisamente? Come reagirebbe il Pianeta Azzurro, e cosa resterebbe a testimoniare le nostre esistenze?
Il pluripremiato giornalista americano Alan Weisman ha cercato di rispondere a queste domande, compiendo una piccola rivoluzione copernicana nello studio dei cambiamenti planetari: capire cosa ne sarebbe della Terra se di colpo noi tutti smettessimo di aggredirne le risorse. La sua approfondita e documentata ricerca è confluita in The World Without Us (Il Mondo senza di noi), libro fresco di pubblicazione negli States, in cui Weisman ipotizza in una metodica linea del tempo, l’evoluzione della Terra senza il genere umano.
Ecco la sua corsa nel tempo dall’oggi a un futuro di cinque miliardi di anni.

2 giorni dalla scomparsa del genere umano
Primo effetto, banale ma non così scontato, la metropolitana di New York sarebbe invasa dall’Oceano a causa del mancato pompaggio delle acque.

7 giorni
A causa del mancato rifornimento di carburante, la maggior parte dei generatori di emergenza delle centrali nucleari si arresterebbe, causando la fusione del nocciolo nei reattori.

1 anno
In tutto il mondo un miliardo di uccelli, uccisi ogni anno, sopravvivrebbe grazie al mancato funzionamento delle luci nei grattacieli, dei ripetitori, delle pale per l’energia eolica e dei cavi dell’alta tensione.
Molte specie animali inizierebbero a ripopolare i siti ove si erano verificate le esplosioni delle centrali nucleari.

3 anni
La mancata manutenzione delle tubature del gas porterebbe a violente esplosioni nelle città, con considerevoli conseguenze sulla stabilità degli edifici. Nelle zone climatiche più fredde, l’acqua congelerebbe dilaniando le tubature che la contenevano. Non potendo contare su caldi rifugi in cui passare l’inverno, persino gli scarafaggi sarebbero costretti a traslocare…

20 anni
Abbandonato alle forze della Natura, il canale di Panama scomparirebbe completamente, riunificando dopo decenni le due Americhe. Intanto, nelle metropoli devastate per anni da incendi, inondazioni ed esplosioni, la vegetazione inizierebbe ad invadere e colonizzare ciò che l’uomo aveva creato.

Un secolo
Il mancato commercio di avorio consentirebbe all’intera popolazione di elefanti del globo di aumentare di almeno 20 volte.
Le specie di piccoli predatori come volpi, donnole, orsetti lavatori e tassi verrebbero sterminate dai discendenti di animali molto combattivi allevati fino a un secolo prima dall’uomo: i gatti domestici.

Acceleriamo e compiamo un balzo di…

Cinque millenni
Tutte le infrastrutture create dall’uomo sarebbero ormai completamente distrutte, compresi i ponti e gli edifici in acciaio più resistenti. Tra i pochi reperti della nostra civiltà l’unico in grado di sopravvivere potrebbe essere il Tunnel sotto la Manica.

100.000 anni
I livelli di anidride carbonica si riporterebbero sui valori esistenti prima della comparsa dell’Uomo sul pianeta.

10 milioni di anni
Qualcosa a testimonianza della nostra esistenza sopravvivrebbe ancora: alcune parti dei monumenti in bronzo che oggi ornano le nostre città.

Tra i 4 e i 5 miliardi di anni
La Terra inizierebbe a soffrire la progressiva espansione della stella che un tempo le aveva dato la vita: il Sole. Intorno ai 5 miliardi di anni per il nostro Pianeta sarebbe la fine, completamente bruciato e inglobato dall’incredibile energia sprigionata dal Sole, alle prese con le sue ultime drammatiche fasi di vita.

Secondo gli scienziati consultati da Weisman una sola cosa creata dall’uomo potrebbe sopravvivere a tutto questo: le onde radio. Quotidianamente emesse per le nostre comunicazioni, le onde radio continuano per miliardi di anni luce il loro cammino verso l’ignoto, portando con sé la testimonianza della nostra esistenza.
Chissà, magari quando la Terra sarà ormai un ricordo, qualcuno lassù capterà un semplice messaggio: “13 ottobre 2007, continua l’allarme per il surriscaldamento globale. Occorre agire subito…”

[pubblicato per la prima volta da me su CattivaMaestra]

Terreni fertili in estinzione

Alle scottanti tematiche sul surriscaldamento globale e sull’estinzione delle specie animali, che occupano sempre più frequentemente le prima pagine dei giornali, si potrebbe presto aggiungere un nuovo allarme legato alla pericolosa e inarrestabile erosione dei terreni fertili utilizzati per le produzioni agricole.

La parte più scura è la porzione di suolo più fertile e maggiormente soggetta agli stress causati dalle coltivazioniOgni anno, le terre coltivate in tutto il mondo perdono mediamente un millimetro di suolo fertile. Non sembra molto, ma per ripristinare un millimetro di suolo la natura impiega almeno dieci anni, un tempo enorme per i ritmi forsennati delle moderne coltivazioni.
Il progressivo depauperamento di suolo fertile costringe così molti agricoltori ad utilizzare in maniera sempre più intensiva ed estesa i fertilizzanti chimici. Arare i terreni con metodi meno invasivi consentirebbe di limitare i danni ai campi, ma secondo recenti stime, solo il 7% di tutto il terreno coltivato nel mondo viene trattato con procedure eco-compatibili.

Per determinare con quale velocità stia avvenendo l’impoverimento del suolo fertile, il geomorfologo David Montgomery della University of Washington (Seattle – USA) ha analizzato un’enorme mole di dati sull’erosione dei terreni.
Pubblicata sul numero di settembre di GSA Today, la ricerca di Montgomery giunge a due importanti conclusioni.

  1. Le convenzionali tecniche di coltivazione, le più diffuse globalmente, comportano un’erosione del suolo fertile maggiore di numerose volte rispetto alla capacità della natura di ripristinare minerali e nutrienti nel terreno.
  2. L’utilizzo di tecniche di coltivazione non invasive combinate con l’agricoltura biologica e la rotazione nelle coltivazioni consentirebbe di mantenere elevati i livelli di produzione senza incidere negativamente sulla fertilità dei terreni agricoli.

L’aratura eccessivamente profonda dei terreni rallenta il naturale ripristino dei minerali e dei nutrienti del suolo“La longevità delle nostre società dipenderà sempre di più dalla disponibilità di terreni coltivabili e da come tratteremo il suolo” ha dichiarato Montgomery alla rivista scientifica Science. “Mentre Stati Uniti e Canada iniziano ad adottare tecniche poco invasive, guardo con molto timore alla produzione dei bio-carburanti che potrebbero attivare uno sfruttamento ancora più intensivo del suolo”.
Il lavoro di Montgomery è stato accolto con molto interesse da quei settori della ricerca scientifica che ormai da anni studiano i processi di erosione del suolo fertile, responsabili del progressivo rallentamento della produzione agricola. Secondo alcune proiezioni statistiche, senza interventi incisivi l’eventualità di perdere buona parte dei terreni coltivabili potrebbe diventare realtà in tempi molto brevi.
Un rischio che non possiamo permetterci…

Cocktail oceanico

“Perché non mischiamo le acque degli oceani per raffreddare il Pianeta?”
Questa la singolare proposta espressa da James Lovelock e Chris Rapley in una lettera aperta alla prestigiosa rivista scientifica Nature.

Schema del ciclo di emissione e assorbimento di CO2 degli oceani [photo credit: Planktos.com]Secondo Lovelock, passato alla cronaca per la sua controversa teoria sulla capacità della Terra di “curarsi” da sola, e il curatore del London Science Museum Rapley, si potrebbero utilizzare delle imponenti tubature verticali per mescolare le acque ricche di nutrienti vegetali dei fondali marini con le acque di superficie, meno dense e povere di vegetazione. Ciò comporterebbe un maggior consumo di anidride carbonica (CO2) grazie alla fotosintesi delle alghe, con un conseguente abbattimento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera.
Nella loro lettera aperta pubblicata su Nature, i due autori ammettono che quella del “cocktail oceanico” sia ancora una semplice idea, perfetta nella teoria, ma difficile da applicare nella pratica. Lovelock e Rapley sono però convinti che solamente utilizzando le enormi potenzialità naturali ed energetiche del Pianeta sarà possibile arrestare il surriscaldamento globale.

Sommità di un “pozzo di pompaggio oceanico” [photo credit: Atmocean]Quella di mescolare le acque degli oceani può apparire un’idea balzana e irrealizzabile, eppure un’azienda di Santa Fe (New Mexico – USA) sta cercando già da alcuni mesi di creare un sistema per il pompaggio verticale dell’acqua oceanica.
Secondo Phil Kithil, amministratore delegato della Atmocean, un utilizzo intensivo dei sistemi di pompaggio potrebbe raddoppiare la capacità degli oceani di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera. La sua azienda ha già sviluppato un particolare tipo di tubi galleggianti larghi tre metri e lunghi 300m in grado di svolgere perfettamente il compito suggerito da Lovelock e Rapley.

L’idea di rendere più fertile gli oceani per aumentare la loro capacità di assorbimento dell’anidride carbonica non è una novità. Il biologo ed oceanografo David Karl (University of Hawaii, USA) si dedica da molti anni allo studio delle alghe e dei loro nutrienti coinvolti nei cicli di emissione e assorbimento della CO2.
Interessato a misurare l’effettiva capacità delle acque oceaniche di “ripulire l’aria”, il prossimo anno Karl condurrà un esperimento su larga scala utilizzando le strumentazioni messe a disposizione dalla Atmocean. Raccolti i dati, Karl cercherà poi di calcolare il bilancio finale del processo comparando la quantità di anidride carbonica riportata in superficie dalle profondità oceaniche con quella effettivamente assorbita dalle alghe.

onda.jpgAlcuni scienziati temono infatti che il bilancio finale del processo proposto da Lovelock e Rapley possa essere negativo.
Secondo i detrattori del “cocktail oceanico”, le sostanze presenti nelle profondità oceaniche contengono ingenti quantità di anidride carbonica che, una volta portate in superficie a una pressione molto più bassa, potrebbe liberarsi rapidamente nell’atmosfera come avviene con le bollicine in un bicchiere d’acqua gassata.
Inoltre, per estrarre l’acqua dalle profondità oceaniche sarebbero necessarie ingenti quantità di energia che, allo stato, non potrebbero essere ottenute da fonti rinnovabili e a basso impatto (anche se la Atmocean afferma che per il suo sistema sia sufficiente l’energia fornita dai moti ondosi).
Nonostante le numerose stroncature di questa teoria, David Karl prosegue con pionieristico ottimismo le sue ricerche: “È un progetto magnifico, anche se so che potrebbero esserci forti difficoltà per tramutare la teoria nella pratica…”

Foresta Amazzonica a secco

Foto satellitare del forte periodo di siccità del 2005, in verde scuro le aree più rigoglioseNonostante il lungo periodo di siccità che ha colpito alcune aree della foresta Amazzonica, il cuore verde del nostro Pianeta, la vegetazione in quest’area geografica è cresciuta con una velocità superiore alle normali medie registrate negli ultimi anni.
Questo fenomeno contraddice in parte l’ipotesi secondo cui la foresta Amazzonica potrebbe conoscere il suo ultimo autunno appena dopo un mese di siccità, fino al collasso della sua intera vegetazione.

“Invece di attivare alcuni meccanismi di autoprotezione per sopravvivere durante i periodi di siccità, nel 2005 la foresta Amazzonica ha risposto molto positivamente alla mancanza d’acqua, perlomeno nel medio termine” ha dichiarato l’autore della ricerca Scott R. Saleska dell’Università dell’Arizona (USA) che ha definito il comportamento della foresta come “Un fenomeno completamente inaspettato e molto interessante”.
La siccità registrata nel 2005 raggiunse il proprio picco durante l’inizio della stagione secca dell’Amazzonia, tra luglio e settembre. Nonostante il periodo di estrema aridità dei terreni, che avrebbe dovuto arrestare la crescita dei vegetali nell’immensa area geografica, buona parte del “polmone verde” ha continuato a svilupparsi aumentando i processi di fotosintesi e mostrando un rigoglio fuori dal comune.

La foresta Amazzonica è una risorsa fondamentale per ripulire l’aria dai gas serra e diminuire l’impatto del surriscaldamento globalePer monitorare la foresta Amazzonica, il team di ricercatori guidati dal prof. Saleska ha utilizzato le informazioni e i dati forniti da due sofisticati satelliti della NASA. Immagini e rilevazioni disponibili già da molti anni, ma che nessuno aveva ancora valutato come una opportunità per sorvegliare una delle aree più verdi dell’intero Pianeta.
Il durissimo periodo di siccità del 2005 e le informazioni fornite dai due satelliti della NASA, uno per mappare il rigoglio della vegetazione e l’altro per misurare i livelli di precipitazioni atmosferiche nella fascia dei tropici, hanno permesso ai ricercatori di studiare nel dettaglio la reazione dell’intera foresta Amazzonica alla prolungata mancanza d’acqua.
Osservando i dati raccolti mese per mese sul cambiamento della vegetazione, Saleska e i suoi colleghi hanno potuto tracciare la storia evolutiva della foresta dal 1997 al 2005, che ha evidenziato una crescita media della vegetazione costante anche nelle aree colpite da lunghi periodi di siccità.

Questa scoperta contraddice in parte i più recenti modelli climatici che, in caso di siccità, predirebbero una rapida scomparsa di ampie aree verdi della foresta Amazzonica. Almeno nel medio periodo, l’enorme distesa verde del Sud America ha dimostrato di poter contare sulle proprie forze e riserve per mantenersi rigogliosa e vitale, continuando ad apportare i suoi benefici effetti nella riduzione di CO2 nell’atmosfera.

La ricerca, che verrà pubblicata nell’ultima settimana di Ottobre su Science, ha già suscitato molto scalpore tra biologi e climatologi, interessati ad approfondire l’incredibile e controintuitiva scoperta dei ricercatori della Università dell’Arizona.
Nonostante questo importante risultato, quanto la foresta Amazzonica possa resistere in assenza d’acqua rimane ancora un mistero. Saleska non ha però dubbi: “Non sappiamo per quanto, ma è certo che un periodo prolungato di mancanza d’acqua porterebbe all’inevitabile morte di buona parte della vegetazione”.
Un rischio che non possiamo permetterci.

Nel cuore del Pianeta

Rappresentazione grafica dell’interno della Terra [credit: Wikipedia]Nel suo romanzo Viaggio al centro della Terra (1864), Jules Verne racconta l’incredibile e avvincente storia di una spedizione che si avventura nelle viscere di un vulcano per raggiungere il centro del Pianeta.
Nel corso di oltre un secolo, il magnifico racconto di Verne ha stimolato la fantasia non solo dei lettori, ma anche dei tanti geologi che da sempre si interrogano sulla misteriosa natura intima della Terra. Paradossalmente, infatti, conosciamo molte più cose sull’angolo di Universo in cui si trova la nostra galassia rispetto al “ripieno” del nostro Pianeta.
Grazie ai dati forniti dalle rilevazioni sismografiche, si è giunti a immaginare la Terra come un’enorme serie di matrioske suddivisa in numerosi “gusci”: crosta (la superficie su cui viviamo), mantello superiore, mantello inferiore, nucleo esterno, nucleo interno. Secondo questa ipotesi, ogni guscio conterrebbe minerali caratterizzati da particolari densità e proprietà fisiche. Nonostante questa tesi sia ormai accettata dalla maggior parte dei geofisici, come si comportino i materiali imprigionati nei diversi gusci a temperature e pressioni altissime rimane ancora un enigma.

Rappresentazione schematica di un atomoIntenzionato a risolvere almeno in parte questo intricato rebus, il prof. Jung-Fu Lin del Lawrence Livermore National Laboratory (California, USA) ha sottoposto un minerale ricco di ferro alle medesime condizioni in cui si trovano i minerali nel mantello inferiore a 2,000 km di profondità dalla crosta terrestre.
Studiando la reazione di questo minerale, il team di ricerca guidato da Jung-Fu ha osservato un progressivo schiacciamento e surriscaldamento degli atomi. Questo inatteso fenomeno ha avuto ricadute sulle proprietà globali del minerale, tra cui la capacità di rallentare o accelerare il passaggio delle onde sonore al proprio interno.

Per ottenere questo importante risultato, i ricercatori hanno utilizzato una particolare celletta ottenuta da un diamante, in grado di sopportare la fortissima pressione di 95 gigapascal (pari a 940 volte la pressione terrestre), e una luce laser molto potente per scaldare fino a 2.300 gradi Kelvin (circa 2.000° C) il campione di minerale da analizzare.
Queste condizioni estreme determinano una vera e propria rivoluzione a livello atomico, tale da modificare le orbite degli elettroni (le cariche elettriche che girano vorticosamente intorno al nucleo dell’atomo). Ed è proprio questo “salto” da un’orbita all’altra degli elettroni a modificare la densità del minerale e di conseguenza la sua reazione alle onde sonore.

Altamente viscoso, il magma è costituito da rocce allo stato liquido provenienti dal MantelloQuesta particolare scoperta potrebbe costringere i geofisici a rivedere alcune delle loro teorie. Lo studio della riflessione delle onde sonore, infatti, è alla base delle tecniche utilizzate per determinare i diversi tipi di roccia che costituiscono gli strati interni del nostro Pianeta. A seconda del grado e del tipo di rifrazione i ricercatori sono in grado di identificare, con un’approssimazione accettabile, la natura dei minerali che non possono materialmente analizzare perché “affogati” a centinaia di chilometri di profondità.
La ricerca del team guidato da Jung-Fu dimostrerebbe che uno stesso minerale potrebbe presentarsi con caratteristiche e proprietà diverse, anche a livello atomico, lungo buona parte degli strati che costituiscono la massa terrestre.

La scoperta di Jung-Fu Lin rappresenta un importante passo avanti per definire con maggiore precisione non solo la struttura intima del nostro Pianeta, ma anche il suo funzionamento.
E mentre a migliaia di chilometri di profondità immani forze sconvolgono e mantengono vivo il cuore della Terra, sulla minuscola porzione di crosta terrestre che popoliamo apriamo ogni giorno profonde cicatrici…

[fonte principale: Nature]