È genetico l’equilibrio numerico tra i sessi

La maggior parte delle specie viventi cerca di mantenere un sostanziale equilibrio tra il numero di maschi e di femmine nella propria popolazione. Dopo un’attenta ricerca, un gruppo di genetisti è riuscito ad identificare il gene responsabile per questo bilanciamento tra i sessi, almeno per quanto riguarda i moscerini della frutta (Drosophila).

In natura gli esemplari di Drosophila mantengono una sostanziale parità numerica tra i sessi, mentre in laboratorio accade spesso che siano predominanti gli individui di sesso femminile. Si immaginava che la disparità fosse dovuta a una generale predominanza del cromosoma sessuale femminile X su quello maschile Y, ma non vi erano dati certi per comprendere il curioso fenomeno.
Determinato a ottenere una risposta concreta e basata sul DNA, un team di genetisti guidati da Tao Yun della Emory University (Georgia, USA) ha analizzato i geni della Drosophila scovando finalmente il responsabile. I ricercatori hanno confrontato il DNA dei moscerini da laboratorio, che danno origine al 90% di nuove femmine, con il DNA di alcuni moscerini appena catturati in natura, che danno origine a un numero equilibrato di maschi e femmine. È stato così possibile isolare un gene collocato sul cromosoma sessuale X dei moscerini da laboratorio, battezzato dai ricercatori Dox.

I ricercatori hanno così scoperto che i moscerini in possesso del gene Dox hanno un’alta concentrazione di cromosomi X nel loro liquido seminale e pochissimi cromosomi Y. Secondo la ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica PLoS Biology, il gene Dox sarebbe in grado di disattivare il cromosoma Y, portando alla nascita di più femmine (XX) rispetto agli esemplari di sesso maschile (XY). Nei moscerini privi di gene Dox, invece, le probabilità di fecondazione rimangono pressoché identiche a quelle registrate in natura.
Ma cosa determina la presenza del gene Dox? Grazie a un’altra serie di esperimenti, i ricercatori hanno identificato un altro gene, chiamato Nmy, in grado di inibire il gene Dox. In laboratorio, i moscerini dotati di Dox e Nmy hanno prodotto un numero uguale di esemplari maschi e femmine, mentre i moscerini privi di Nmy hanno dato origine a un numero maggiore di esemplari di sesso femminile.

Non è ancora chiaro se un meccanismo simile a quello rilevato negli esemplari di Drosophila possa essere comune ad altre specie viventi. Secondo il prof. Tao Yun, la scoperta potrebbe contribuire a spiegare i complessi meccanismi di soppressione dei cromosomi X e Y che portano alla creazione dei gameti, le cellule sessuali che danno poi vita all’embrione.

Per gli uccelli migratori trovare la rotta non è solo questione d’istinto

Il cervello degli uccelli migratori è in grado di memorizzare la fisionomia di un intero continente in circa un anno di viaggio. Questa la sorprendente conclusione di uno studio svolto da alcuni ricercatori dell’università di Princeton (USA). Gli scienziati hanno dimostrato come alcuni esemplari di passeri siano in grado di ritrovare la strada verso i paesi caldi anche dopo essere stati allontanati migliaia di chilometri dal loro luogo di migrazione, semplicemente aggiustando la rotta per compensare il dirottamento forzato. A differenza degli esemplari adulti, gli individui più giovani si sono dimostrati incapaci di ritrovare la giusta rotta e hanno genericamente orientato il loro volo verso sud.

Secondo i ricercatori, il comportamento degli esemplari più giovani sarebbe giustificato dalla mancanza di una completa conoscenza dei territori, sorvolati durante le migrazioni, a causa della giovane età. Le capacità di orientamento degli uccelli migratori non sarebbero dunque unicamente innate, ma anche acquisite grazie all’esperienza accumulata durante i lunghi viaggi tra i due emisferi terrestri.
“Il nostro è il primo esperimento che dimostra come l’età rivesta un ruolo fondamentale per la migrazione degli uccelli” ha dichiarato il prof. Martin Wikelski, coordinatore del team di ricerca giunto alla sorprendente scoperta. “I risultati indicano che gli uccelli adulti possiedono una vera e propria mappa mentale che comprende buona parte degli Stati Uniti e probabilmente del globo”. Da tempo i ricercatori si chiedevano come facessero i passeri a recuperare velocemente la giusta rotta dopo essere stati “dirottati” da fattori naturali, come forti venti e tempeste. Per rispondere a questa domanda, il team di ricerca ha deciso di equipaggiare un gruppo di passerotti con alcuni trasmettitori radio, non più pesanti di una comune graffetta da ufficio, per tracciarne con precisione gli spostamenti nei cieli.

I ricercatori hanno spostato una trentina di passerotti dallo stato di Washington (estremo nord-ovest degli Stati Uniti) a Princeton (nord-est degli USA)I ricercatori hanno spostato una trentina di passerotti dallo stato di Washington (estremo nord-ovest degli Stati Uniti) a Princeton (nord-est degli USA) poco prima della loro partenza per raggiungere i paesi caldi durante l’inverno boreale. Metà dei passerotti era costituita da individui giovani, di appena tre mesi di vita, che non avevano mai compiuto una migrazione in tutta la loro esistenza; mentre l’altra metà era costituita da individui adulti che avevano già compiuto il viaggio di migrazione (andata e ritorno) almeno una volta.
Dopo esser stati liberati, i trenta uccelli hanno cercato di recuperare la rotta per la migrazione, ma si sono dimostrati estremamente disorientati. “Hanno girato in tondo per un paio di giorni” ha dichiarato il prof. Wikelski. “Ma mentre gli adulti hanno capito che fosse necessario muovere verso sud-ovest, i giovani esemplari hanno cercato a più riprese di volare genericamente verso sud, come se si fossero ancora trovati sulla costa occidentale.”

L’esperimento ha dimostrato come gli individui adulti siano in grado di ricostruire una precisa mappa mentale del territorio che hanno già sorvolato. Ciò consente loro di fondere queste informazioni con la “bussola naturale” che in maniera istintiva li guida verso il sud. Come qualsiasi essere umano alle prese con una gara di orientamento, i passeri hanno bisogno di una bussola e di una buona mappa per potersi orientare e ritrovare la via di casa.
La ricerca, da poco pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, sta destando molto scalpore in ambiente scientifico, specialmente tra gli etologi che da decenni cercano di comprendere appieno il segreto delle formidabili capacità di orientamento degli uccelli migratori. La risposta potrebbe finalmente trovarsi sulla giusta rotta…

Paris Hilton e l’effetto analgesico sui topi

Paris Hilton potrebbe costituire un’ottima alternativa ai tradizionali analgesici. Un gruppo di neuroscienziati ha scoperto che una sagoma di cartone ritraente la ricca, e discussa, ereditiera è in grado di arrestare le sensazioni dolorose nei topi. La curiosa scoperta riguarda i soli topi di sesso maschile, e potrebbe essere causato dalla capacità dell’immagine di stressare questi piccoli quadrupedi.

L’idea per questo esperimento, sicuramente fuori dal comune, è venuta in mente al prof. Jeffrey Mogil della McGill University di Montreal (Canada) e al suo gruppo di ricerca che aveva notato come i topi maschi spendessero meno tempo a leccarsi le ferite per lenire il dolore se in presenza di uno dei ricercatori. Per capire se questo curioso comportamento fosse condizionato da variabili olfattive o visive legate alla presenza umana, i ricercatori hanno acquistato una delle tante sagome in cartone ritraenti Paris Hilton.
Al cospetto della ricca ereditiera, i topo maschi hanno dedicato molto meno tempo a leccarsi le ferite, mentre gli esemplari di sesso femminile hanno continuato a lenire il loro dolore senza prestar alcuna attenzione alla sagoma di cartone. Inserendo uno schermo nero tra i topi e Paris Hilton, l’effetto è completamente sparito.

Approfondendo i risultati della ricerca, il team guidato da Mogil ha scoperto che – nei soli topi maschi presentati a Paris – era drasticamente rallentata l’attività del gene c-fos, responsabile della trasmissione dei segnali dolorosi dal midollo spinale al cervello, chiaro indice di una ridotta attività neuronale legata ai centri del dolore.
Secondo i ricercatori della McGill University, l’effetto analgesico potrebbe essere ricollegabile a una fase di stress vissuta dai topi. Ricerche di laboratorio analoghe hanno già dimostrato un collegamento tra la percezione del dolore e lo stress nei roditori, generalmente esposti ad alcuni ormoni di gatto. In presenza di un predatore, del resto, restare fermi e continuare a leccarsi le ferite non sarebbe probabilmente il miglior modo per sopravvivere. I topi vedono quindi gli uomini come potenziali predatori e, per alcune ragioni ancora poco note, i maschi sarebbero molto più soggetti a questo genere di stress rispetto alle femmine.

La ricerca di Mogil dimostra quanto possano essere differenziate le reazioni alla paura tra esemplari di sesso maschile ed esemplari di sesso femminile. L’analisi dei risultati ottenuti in laboratorio consentirà di comprendere con maggiore precisione i meccanismi che portano agli atteggiamenti prettamente “di genere” non solo negli animali, ma anche tra gli esseri umani. A partire da Paris Hilton…

Isolato il gene responsabile dell’artrite

Un gruppo di ricercatori è riuscito a identificare un marcatore genetico che potrebbe portare alcune persone ad essere maggiormente predisposte all’artrite. La scoperta si potrebbe rivelare molto utile per comprendere con maggior precisione questa patologia debilitante e trovare nuove vie di cura.

Rappresentazione schematica dei meccanismi che portano all’insorgenza dell’artrite reumatoide [credit: en.sanofi-aventis.com]L’artrite reumatoide colpisce centinaia di migliaia di persone nei paesi maggiormente avanzati (nella sola Gran Bretagna sono circa 400.000 gli individui che ne soffrono) ed è causata da un’errata risposta del sistema immunitario, che attacca e distrugge le cartilagini nelle giunture ossee. Molto dolorosa e invalidante, l’artrite reumatoide porta alla progressiva perdita di mobilità degli arti e rende meno elastici e reattivi i vasi sanguigni, i polmoni, i muscoli e il cuore. Ogni anno sono migliaia i nuovi casi diagnosticati e, nonostante alcuni farmaci palliativi, allo stato non esiste una cura per questa terribile malattia.

L’artrite reumatoide porta alla irrecuperabile deformazione degli arti di chi ne è affetto [credit: pwp.netcabo.pt]Fino ad ora erano stati identificati due geni in grado di giustificare in parte l’insorgenza dell’artrite reumatoide nei soggetti predisposti. La scoperta del nuovo marcatore genetico, che ha diretta influenza sul gene TNAIF13 potrà portare a una comprensione più approfondita dello sviluppo della malattia.
Pubblicata sulla rivista scientifica Nature Genetic, la ricerca condotta da un team di ricercatori della Manchester University (UK) ha coinvolto circa 5.000 volontari affetti da artrite reumatoide, che hanno messo a disposizione il loro profilo genetico per un confronto con altri 3.000 soggetti sani. “I risultati cui siamo giunti ci portano a un passo dalla comprensione completa dei fattori genetici che si nascondono dietro questa malattia debilitante così diffusa nella popolazione” ha dichiarato con orgoglio Jane Worthington, che ha guidato il team di ricercatori e genetisti.

“Speriamo di essere presto in grado di interpretare i fattori genetici che portano all’insorgenza della malattia. Questa potrebbe essere un’ottima soluzione di calibrare terapie estremamente mirate” e quindi con minori effetti collaterali, ha dichiarato Worthington. I risultati della ricerca condotta alla Manchester University, e la conseguente identificazione del nuovo marcatore genetico, potranno portare allo sviluppo di nuovi farmaci mirati per portare sollievo ai milioni di persone che in tutto il mondo soffrono di questo male.

Osservato tornado spaziale intorno a un buco nero

Per la prima volta, un gruppo di astronomi ha osservato alcuni tornado di dimensioni titaniche emersi da un buco nero caratterizzato da una super-massa. La violenza dei venti cosmici sprigionati dal fenomeno starebbero soffiando con così tanta forza da influenzare la forma stessa della galassia da cui sono originati. La scoperta potrebbe aiutare i ricercatori impegnati nello studio delle prime fasi evolutive dell’Universo.

Galassia. Nel dettaglio: buco nero super-massivo parte della galassia [credit: (X-ray) NASA/CXC/CfA/INAF/Risaliti; (Optical) ESO/VLT]L’osservazione di questi incredibili tornado è stata compiuta da un gruppo di astronomi del Rochester Institute of Technology (USA) in collaborazione con alcuni colleghi britannici, che da mesi studiano lo spettro luminoso emesso dal centro della galassia PG 1700+158, collocata a circa tre miliardi di anni luce dalla Terra.
Generalmente i buchi neri emettono gas ad altissima temperatura che, miscelati con i detriti che vi orbitano intorno, creano dense nubi in grado di sviluppare incredibili quantità di luce, tali da mettere in ombra intere galassie. Scomponendo la luce con apposite lenti polarizzate, simili a quelle dei comuni occhiali da sole, gli astronomi sono riusciti ad analizzare con precisione il fascio di luce emesso dal buco nero, calcolandone lunghezza d’onda e periodo. Interpretando i dati raccolti, è stato poi possibile determinare la forza dei cicloni di gas che si muovono intorno al buco nero a una velocità di circa 4000km al secondo, decine di migliaia di volte più forti dei loro omologhi terrestri. La forza dirompente di questi tornado è in grado di influenzare l’intera galassia PG 1700+158 e ciò che vi orbita intorno per milioni di chilometri.

Se confermata, la teoria di Young potrebbe spiegare la crescita limitata delle galassiePubblicata sull’ultimo numero della rivista scientifica Nature, la scoperta è stata resa possibile grazie al lavoro del team di ricerca guidato dal prof. Stuart Young. Secondo i risultati della sua ricerca, i forti venti sarebbero in grado di riscaldare il perimetro dell’intera galassia fino a limitarne la crescita. Se così fosse, significherebbe che i venti originati dai buchi neri abbiano limitato le dimensioni delle galassie nei primi periodi di vita dell’intero Universo. Per avere una conferma definitiva alle sue teorie, ora Young dovrà cercare altri buchi neri con le medesime caratteristiche di quello già analizzato, trasformando un’affascinante ipotesi in una ferrea regola della fisica dei corpi celesti.
La scoperta di Young, che per la prima volta ha consentito di osservare un buco nero da vicino nella sua struttura più intima, potrebbe aprire un nuovo capitolo nella ricerca dell’evoluzione di quel gran mistero che è l’Universo.

Nelle profondità degli oceani per studiare i terremoti

Una delle più ambiziose ricerche scientifiche mai realizzate dall’uomo è stata da pochi giorni avviata al largo delle coste del Giappone. Progettata per svelare i misteri legati alle dinamiche dei terremoti, la ricerca sarà condotta da un team internazionale di rilievo.

Chikyu sormontata dall’enorme trivella montata sul ponte [credit: web.missouri.edu]Nel corso dei prossimi mesi, ricercatori britannici e giapponesi studieranno una particolare zona di subduzione (un’area in cui una placca litosferica oceanica scivola al di sotto di una placca continentale) a bordo della nave-trivella Chikyu, che in giapponese significa “Cuore della Terra”. Dotata di tecnologie molto sofisticate e di una potente torre di trivellazione all’avanguardia, l’imbarcazione è al suo viaggio di debutto e consentirà ai ricercatori di analizzare con estrema precisione le caratteristiche più intime della crosta terrestre.

Rappresentazione schematica della nascita di uno tsunami [credit: static.howstuffworks.com]I terremoti dovuti alla subduzione, ovvero allo scorrimento di due placche, sono i più potenti e devastanti eventi che si verificano sul nostro Pianeta, causando spesso catastrofi di immane violenza come il terribile tsunami del 2004 che sconvolse il sud-est asiatico. A causa della sua conformazione geologica, il Giappone è tra i posti al mondo maggiormente soggetti ai terremoti. Trattandosi di una questione vitale e di sopravvivenza, da sempre le autorità giapponesi investono enormi risorse per studiare e capire le dinamiche dei terremoti. Non stupiscono dunque l’enormità del progetto e gli obiettivi ambiziosi prefissati per le fasi di ricerca a bordo della Chikyu.

Per la prima volta nella storia, infatti, verrà effettuata una trivellazione a oltre 3.500m di profondità a partire dal fondale marino. Dopo una prima fase dedicata alla raccolta di dati e all’installazione di particolari sensori, le trivelle dell’imbarcazione proseguiranno il loro viaggio nelle viscere della Terra raggiungendo i 6.000 metri di profondità dal fondale marino. Particolari braccia robotizzate provvederanno a prelevare campioni della crosta e a collocare alcuni rilevatori in grado di calcolare i movimenti sismici legati all’azione di subduzione.
Questa ciclopica impresa consentirà di studiare i materiali rocciosi della crosta terrestre, affinando le conoscenze sulla dinamiche fisiche che portano ai violenti terremoti in quell’area del Pacifico.