Prime immagini lunari ad alta definizione inviate dalla sonda Kaguya

Lanciata lo scorso 17 settembre, la sonda spaziale Kaguya ha sorvolato in questi giorni la Luna per numerose volte, raccogliendo immagini ad altissima definizione molto rilevanti per la Scienza, ma anche estremamente affascinanti.
Durante la sua missione, la sonda spaziale giapponese Kaguya raccoglierà numerosi dati utili per comprendere le fasi evolutive del nostro unico satellite naturale. L’orbiter è dotato di 13 sofisticati sensori di bordo, tra cui si distinguono un radar di ultima generazione, un altimetro laser ad altra precisione, uno spettrometro a raggi-X e raggi-gamma, nonché numerose fotocamere ad altissima risoluzione che hanno scattato queste magnifiche immagini.

Area del Polo Nord lunare.
Polo Nord della Luna [credit: http://www.jaxa.jp]

Quest’area scura è soprannominata “oceano”. L’Oceauns Procellarum si trova ad est dell’emisfero nord ed è visibilie a occhio nudo dalla Terra.
Oceanus Procellarum [credit: http://www.jaxa.jp]
Oceanus Procellarum [credit: http://www.jaxa.jp]

Plancton oceanico aumenta il prelievo di CO2, ma non è una buona notizia

I microscopici organismi marini che costituiscono il plancton starebbero assorbendo maggiori quantità di anidride carbonica in risposta al progressivo aumento di CO2 su scala globale. Un team internazionale di ricercatori, coordinati dal Leibniz Institute of Marine Sciences (Germania), ha registrato per la prima volta questa sorprendente reazione biologica del plancton. Partendo dai dati raccolti, il gruppo di ricerca ha poi creato una proiezione sul futuro ecosistema degli oceani, registrando un aumento nell’assorbimento di CO2 pari al 39%.

Plancton al microscopioL’inaspettata reazione del plancton all’aumentare dei gas serra, che potrebbe contribuire a contenere gli effetti deleteri dell’anidride carbonica sul Pianeta, pone però considerevoli interrogativi sui rischi che potrebbero correre gli ecosistemi oceanici. Secondo la ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Nature, un eccessivo prelievo di CO2 da parte del plancton renderebbe molto più acide le acque nelle profondità oceaniche, rendendole povere di ossigeno e difficilmente abitali da moltissime specie ittiche. Un eccesso di anidride carbonica comporterebbe, inoltre, un considerevole decadimento della qualità del plancton, compromettendo l’esistenza di molti animali marini.

Gli oceani sono dei veri e propri polmoni per il nostro Pianeta. Si stima che fino ad ora, essi abbiano “digerito” oltre il 50% dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo attraverso l’impiego dei carburanti fossili. Lo studio delle reazioni del plancton alla crescita di CO2 diventa quindi fondamentale per capire quanto ancora i nostri oceani siano in grado di sottrarre gas serra dall’atmosfera.
Per scoprire i processi biologici oceanici e le loro potenzialità, gli scienziati hanno approntato una serie di nove mesocosmi (piccoli laboratori in cui attuare simulazioni) sulle coste della Norvegia, in cui sono stati isolati 27 metri cubi d’acqua ottenuta dell’oceano. In tre mesocosmi i ricercatori hanno lasciato agire quantità di CO2 pari a quelle registrate quotidianamente nell’atmosfera, mentre nei restanti mesocosmi sono state simulate le concentrazioni di anidride carbonica previste per il 2100. In quest’ultimi, la risposta del plancton è stata pressoché immediata: i microorganismi hanno da subito accelerato la fotosintesi accumulando maggiori quantità di CO2, fino al 39% in più rispetto ai tre mesocosmi di controllo.

onda.jpgLa maggiore rimozione di anidride carbonica dall’atmosfera, ad opera del plancton oceanico, potrebbe avere ottime ripercussioni sui cambiamenti climatici del futuro. Terminato il loro ciclo di vita, gli organismi che costituiscono il plancton affondano nelle profondità oceaniche portando con loro le quantità di CO2 rimosse dalla superficie degli oceani. Ciò che appare come una manna dal cielo per il nostro clima in affanno potrebbe, però, tramutarsi in una vera e propria condanna a morte per i fondali oceanici. La decomposizione degli organismi ricchi di CO2 comporterebbe un maggiore consumo di ossigeno, che verrebbe così sottratto alle tante specie marine che popolano i fondali. Gli strati più profondi degli oceani diverrebbero inoltre molto più acidi e inospitali per molte specie vegetali e animali, con danni incalcolabili per i tanti ecosistemi oceanici.

Una bolla nello Spazio

Continua a catturare immagini estremamente affascinanti e di indiscutibile valore scientifico lo Spitzer Space Telescope della NASA. Il telescopio orbitale ha recentemente inviato alcune fotografie di una piccola stella, distante 1.140 anni luce dalla Terra, intenta a creare due enormi “bolle” costituite da gas molto densi liberati nell’area circostante al piccolo astro.

Le due “bolle” create dalla stella HH 46/47 [credit: NASA/JPL-Caltech/T. Velusamy (Jet Propulsion Laboratory)]

HH 46/47, questo il nome della piccola stella, si presenta come un minuscolo punto bianco al centro delle immagini fornite da Spitzer. Le due bolle, di forma sostanzialmente ellittica, si distinguono invece per la colorazione virante al verde che si estende dal centro della stella. Questi sprazzi di colore verde rivelano le grandi quantità di idrogeno ad altissima temperatura emesso da HH 46/47, le aree di colorazione bluastra sono invece dovute alla reazione delle polveri cosmiche con i gas sprigionati dalla stella.
Le due bolle si sono formate non appena i fortissimi getti di gas, espulsi a una velocità che oscilla tra i 200 e i 300 chilometri al secondo, sono entrati in contatto con i detriti in orbita intorno alla stella.

Galassia a spirale M106 (NGC 4258) [credit: X-ray: NASA/CXC/Univ. of Maryland/A.S. Wilson et al.; Optical: Pal.Obs. DSS; IR: NASA/JPL-Caltech; VLA: NRAO/AUI/NSF] Stelle in formazione nella nube di Perseo [credit: NASA/JPL-Caltech/L. Cieza (Univ. of Texas at Austin)]

Per gli astronomi, i sensori a infrarossi del telescopio Spitzer costituiscono un’ottima opportunità per studiare la turbolenta evoluzione delle stelle simili a HH 46/47. I sistemi ottici di Spitzer sono stati implementati con un particolare software in grado di ripulire completamente le immagini raccolte, fornendo ai ricercatori supporti visivi estremamente nitidi utili per studiare con precisione le fasi evolutive delle stelle in formazione. Grazie a questa nuova tecnologia, gli astronomi sono ora in grado di analizzare con molta precisione i venti stellari e le emissioni di gas delle stelle nelle loro prime fasi di vita.
I dati forniti da Spitzer potranno finalmente aiutare gli astrofisici a risolvere molti degli enigmi legati alla formazione e all’emissione di venti e gas nei primi stadi di vita delle stelle.

Wildwatching, ricordando Isabella Lattes Coifmann

Coifmannwildwatching

«Se l’uomo è mortale, la colpa è del camaleonte. Racconta un’antica leggenda africana che i primi uomini mandarono due messaggeri al dio Somandhla. Erano Nwabu, il camaleonte, e Ntuli la lucertola. Avevano un incarico preciso. Nwabu andava a chiedere che l’uomo diventasse immortale. Ntuli doveva chiedere esattamente il contrario, che la vita umana non fosse illimitata, per lasciare spazio alle nuove generazioni. Il caso volle che il camaleonte si attardasse troppo lungo la strada e la lucertola giungesse per prima. Somandhla esaudì il suo desiderio. E così l’uomo divenne immortale.»

Gli amanti della scienza e degli animali sono orfani ormai da un anno della grande sapienza divulgativa di Isabella Lattes Coifmann, madre della divulgazione scientifica al femminile per eccellenza. Nata a Milano nel 1912 da genitori immigrati dalla Russia, Isabella Lattes Coifmann si laurea in Scienze Naturali all’Università di Napoli, da cui viene estromessa nel 1938 in seguito all’emanazione, da parte del regime fascista, delle leggi razziali. La giovane laureata inizia, sotto diversi pseudonimi, un’intensa collaborazione con la rivista scientifica Sapere della Hoepli.
Nei difficili anni della Seconda guerra mondiale, Coifmann si improvvisa maestra per insegnare ai bambini ebrei a leggere e scrivere. Autrice di numerosi saggi e pubblicazioni scientifiche, al termine del conflitto intraprende con convinzione la carriera giornalistica per comunicare i suoi primi pionieristici studi di etologia. Dall’aprile del 1963 al settembre del 1982 collabora con il giornale Il Mattino di Napoli, firmando più di quattrocento articoli di scienza e natura. Amata dal grande pubblico per il suo stile limpido e costantemente pervaso da una sottile ironia, nel 1981 approda sulle pagine di Tuttoscienze, ove firma il primo articolo in concomitanza con la nascita dell’inserto scientifico.

Con uno stile unico, autorevole e al tempo stesso divertito, questa amica degli animali raccontava abitudini e comportamenti del regno animale, dimostrando un’incredibile sensibilità per i piccoli dettagli. Per chi non vuole dimenticare la prosa avvincente dei suoi reportage, o per chi non ha mai avuto la fortuna di incontrare i racconti di Isabella Lattes Coifmann, consiglio il bel libro WildwatchingI miei viaggi tra gli animali. Il volumetto raccoglie un’attenta selezione dei quaderni di viaggio della grande etologa, in un itinerario ragionato che dalla calda terra d’Africa ci porta alle fresche brezze delle Galapagos, passando per l’insospettabile fauna di una metropoli come San Francisco.
Il libro non offre solo l’opportunità per imparare qualcosa di più sull’incredibile complessità dei comportamenti animali, ma anche la possibilità di conoscere meglio l’affascinante personalità della Coifmann. Donna forte e decisa, testarda a sufficienza da partire da sola per il caldissimo e umido Borneo, e pronta a compiere estenuanti scarpinate nella jungla per osservare in prima persona il comportamento dei primati.
Isabella Lattes Coifmann era una vera inviata speciale della natura, estremamente colta e sempre disponibile a condividere le proprie conoscenze con tutti coloro che fossero interessati ad ascoltarla, o leggerla. Una vera scienziata dell’affabulazione.

«Voliamo su una natura così fantastica che sembra appartenere a un altro pianeta. Montagne squadrate e brulle sulla cui cima par di vedere castelli turriti, cattedrali e minareti. Ma è solo un’illusione ottica. Qui non c’è nulla creato dalla mano dell’uomo, tranne il sentiero scosceso che attraverso mille tortuose giravolte porta a Supai, il pittoresco villaggio dove vive ancora oggi una tribù di indiani Havasupai, che fa parte ormai del folklore locale.
Ogni tanto, tra quelle strane forme montuose dalle pareti stratificate, che sembrano tagliate con l’accetta, riarse e senza vita, si apre una parentesi di azzurro, un laghetto, uno specchio d’acqua. E poi appare e scompare, come se giocasse a nascondino, il nastro serpeggiante del Colorado, l’artefice di tanta meraviglia, che scorre giù giù in fondo a una gola profonda.»

[pubblicato per la prima volta da anecòico su CattivaMaestra.it]

FTO, il gene dell’obesità

Dopo numerose ricerche, un team di genetisti è riuscito ad approfondire sensibilmente le conoscenze legate a FTO, il gene ritenuto responsabile dell’obesità, scoperto lo scorso aprile da un gruppo di ricerca britannico. La scoperta potrà aiutare a comprendere meglio come alcune persone tendano ad accumulare grasso più facilmente rispetto ad altre.

Secondo i risultati di questa nuova importante ricerca, pubblicata questa settimana sulla prestigiosa rivista scientifica Science, il gene FTO sarebbe in grado di attivare o disattivare la funzione di numerosi geni implicati nelle regolazioni metaboliche del nostro organismo e nella regolazione stessa della sensazione di appetito. “Questo è il primo sguardo all’interno del meccanismo responsabile dell’obesità” ha dichiarato entusiasta il prof. Stephen O’Rahilly della Cambridge University (UK), che ha partecipato allo studio: “La scoperta che FTO si comporti come un enzima compiendo questo genere di attività nel DNA è davvero sorprendente, ma c’è ancora molto lavoro da compiere per comprendere come sia in grado di influenzare il nostro peso corporeo”.

Nella sola Gran Bretagna, un quinto della popolazione è obesa e circa la metà dei cittadini di Sua Maestà sono in sovrappeso. In tutto il mondo sono circa 300 milioni le persone obese, soggette a gravi malattie circolatorie e cardiache, nonché alle forme più acute di diabete. Secondo la ricerca, statisticamente circa la metà della popolazione britannica portatrice di una variante del gene FTO pesa mediamente 1,6kg in più rispetto a chi non ne è portatore; vi è poi un 16% della popolazione dotato di due coppie del gene FTO che, mediamente, comporta un peso maggiore di 3kg rispetto alla media nazionale. Queste persone soffrono, inoltre, di maggiori rischi legati al diabete.
Secondo i ricercatori, il gene FTO potrebbe rivestire un ruolo molto importante nella gestione delle sensazioni di sazietà e appetito. Utilizzando particolari molecole (i metaboliti), in futuro si potrebbero creare farmaci appositi per curare le forme più gravi di obesità.

Vitamina D per invecchiare più lentamente

Secondo una recente ricerca, la vitamina D potrebbe rivestire un ruolo fondamentale nel rallentare i processi di invecchiamento e prevenire alcune malattie legate all’età avanzata. Condotto in Gran Bretagna, lo studio ha coinvolto oltre duemila donne su cui sono stati analizzati i livelli di vitamina D. Le donne con bassi livelli di questo nutriente presentavano segni biologici maggiormente evidenti legati all’invecchiamento.

Struttura chimica di base della vitamina D [credit: Wikipedia EN]I ricercatori del King’s College di Londra inizieranno ora la seconda fase di test clinici per confermare l’attendibilità della loro scoperta che, se venisse confermata, potrebbe portare a una nuova generazione di farmaci specificamente studiati per gli anziani.
Durante l’estate buona parte della vitamina D di cui l’organismo ha bisogno viene creata grazie a specifiche reazioni chimiche attivate dalla luce solare. Nei mesi invernali, invece, l’organismo accumula quotidianamente vitamina D dai cibi sopperendo alla minore quantità di luce solare cui viene esposto. Partendo da questo presupposto, il team di ricerca, guidato dal prof. Brent Richards, ha registrato i livelli di vitamina D di 2.160 donne in un’età compresa tra i 18 e i 79 anni tramite un banale prelievo di sangue. I ricercatori hanno poi analizzato i campioni isolando i globuli bianchi e studiando alcuni specifici marcatori genetici.

dna.jpgAnalizzando i telemori, le porzioni terminali delle lunghe catene di DNA, il team di ricerca ha potuto stabilire con precisione l’età biologica delle otre duemila volontarie. Con il passere degli anni, i telomeri divengono progressivamente più corti e la catena di DNA maggiormente instabile, analizzando questi parametri è dunque possibile stabilire l’età biologica di una persona, che può differire anche di molto da quella anagrafica.
Per l’esperimento le volontarie sono state divise in tre gruppi, organizzati in base ai loro livelli di vitamina D. La ricerca ha così evidenziato come le donne con un’alta concentrazione di vitamina D abbiano mediamente telomeri più lunghi, rispetto a quelle con bassi livelli del medesimo nutriente.
Pubblicata sulla prestigiosa rivista American Journal of Clinical Nutrition, la ricerca ha destato molto scalpore e interesse in ambito medico. Secondo il prof. Richards i risultati “sono molto interessanti poiché dimostrano per la prima volta che le persone con un alto livello di vitamina D potrebbero invecchiare molto più lentamente rispetto alle persone con bassi livelli di vitamina D. Questo potrebbe aiutarci a spiegare come la vitamina D svolga la sua funzione protettiva sul DNA e nei confronti di malattie legate all’avanzamento dell’età, come patologie cardiache e cancerogene”.

Le recenti linee guida nutrizionali raccomandano l’assunzione di una quantità minima di vitamina D pari a 200 UI (unità internazionali) per i soggetti giovani, che raggiunge le 600 UI per gli over 70. Una scatoletta di tonno da 85g contiene generalmente 200 UI di vitamina D. Ma attenzione, in caso di sovradosaggio questo nutriente può rivelarsi tossico e portare a nausea e gravi danni renali. Conviene dunque invecchiare con morigeratezza…