Nei segreti del vento solare

Nuove immagini scattate da alcuni telescopi della NASA forniscono preziose informazioni sul campo magnetico del Sole e sulle origini dello stesso vento solare, in grado di interferire con le comunicazioni dei satelliti artificiali orientati verso la Terra.

I dati raccolti dal satellite Hinode, operativo grazie a una collaborazione tra ente spaziale giapponese e NASA, mostrano come le onde magnetiche rivestano un ruolo fondamentale nel guidare il vento solare nello Spazio. Questo vento è un flusso di gas, dotati di considerevoli cariche elettriche, emessi dal Sole in tutte le direzioni e a una velocità che può raggiungere un milione e mezzo di chilometri all’ora. Una conoscenza più approfondita di questo fenomeno potrà consentire agli astrofisici di stimare con più precisione tempi e possibili danni apportati ai satelliti artificiali dal vento solare. Un nuovo studio, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Science, fornisce numerosi e interessanti dettagli per comprendere maggiormente le emissioni solari.

Tracce del campo magnetico solare colte da Hinode [credit: Hinode JAXA/NASA]Per anni si è dibattuto su come si formi e si alimenti il vento solare. Le onde magnetiche di Alfvén, presenti intorno alla massa solare, sono spesso state indicate come il “motore” nella formazione del vento solare poiché potrebbero fare da intermediario tra quest’ultimo e il Sole nel trasferimento di energia. Nell’atmosfera solare, le onde di Alfvén originano dai moti convettivi, dalle onde sonore e dalle forze magnetiche che stravolgono in ogni istante il Sole.
«Fino ad ora, racconta l’astrofisico Alexei Pevstov (NASA), era stato impossibile osservare con precisione le onde di Alfvén a causa della scarsa risoluzione offerta dalle nostre strumentazioni. Grazie al satellite Hinode, ora siamo in grado di vedere direttamente e chiaramente le onde di Alfvén, che ci potranno aiutare a scoprire i misteri legati alla formazione e alle capacità energetiche del vento solare».

Un getto di raggi-X emesso dal polo nord della corona solare [credit: SAO/NASA/JAXA/NAOJ]Utilizzando i sensori ad alta risoluzione del telescopio a raggi X montato su Hinode, gli scienziati della NASA sono stati in grado di addentrarsi fino all’interno della corona solare (la parte più esterna dell’atmosfera del sole) in prossimità dei poli, dove hanno potuto osservare dei veri e proprio getti di raggi-X: fontane di plasma estremamente mobile e caldo (il plasma è un gas ionizzato con carica elettrica nulla). Di questi incredibili fenomeni ne sono stati osservati circa 240 al giorno, molto di più rispetto alle precedenti osservazioni che ne avevano colti meno di una decina.
Questi getti di plasma, emessi da entrambi i poli solari, “ricadono” intorno al sole fino a scontrarsi, originando così le onde di Alfvén e una poderosa combustione che crea i flare solari, una violenta eruzione di materia prodotta dal Sole.

Secondo i ricercatori, questi getti di plasma sarebbero alla base del meccanismo che crea il vento solare. Il fenomeno osservato da Hinode confermerebbe dunque la teoria della riconnessione magnetica e delle supposizioni sul ruolo fondamentale delle onde di Alfvén nella “produzione” del vento solare. Grazie a questa importante scoperta, ora gli astrofisici potranno elaborare modelli matematici più precisi per prevedere, con un certo grado di approssimazione, l’arrivo di possibili “folate” solari di eccezionale entità nell’orbita terrestre. [fonte principale: NASA]

Getti di raggi-X sulla corona del Sole
[credit: SAO/NASA/JAXA/NAOJ]

https://youtu.be/k1UsGW_v7OA

Prevenire i tumori con il tè verde?

Il tè verde svolge un’importante funzione antitumorale contro le cellule del cancro al seno. Non ha dubbi un gruppo di scienziati guidato da Radha Maheshwari, docente alla Uniformed Services University of Health Sciences, che ha dedicato un meticoloso studio sulle proprietà antitumorali del tè verde di prossima pubblicazione sulla rivista specializzata Journal of Cancer Biology and Therapy.

Tipicamente, il cancro è una patologia causata dalla proliferazione incontrollata di alcune cellule che porta alla creazione di una massa tumorale benigna o maligna. Le cellule dei tumori maligni sono in grado di staccarsi dalla coltura in cui sono nate, per poi proliferare in altre aree dell’organismo formando nuove masse (metastasi). Per fare ciò, le cellule tumorali si intrufolano nelle “autostrade” del nostro organismo, come la circolazione sanguigna e il sistema linfatico, per poi raggiungere i nuovi tessuti sani in cui attecchire e provocare seri danni.
Uno stadio di metastasi avanzato significa, nella maggior parte dei casi, una condizione ormai irreparabile per il nostro organismo, che comporta la morte dell’individuo che ne è affetto anche nel giro di pochi mesi. A differenza di quelli maligni, i tumori benigni non invadono, salvo rare eccezioni, altre parti del nostro organismo prefigurandosi dunque come patologie meno pericolose per la salute di chi ne è affetto. La chemioterapia, cioè uno specifico cocktail di farmaci, consente di arginare i danni causati dalla malattia e in molti casi di curarla in maniera definitiva, ma spesso con drammatici effetti collaterali.

Cellule tumorali del cancro al seno [credit: science.nasa.gov]Grazie ai suoi studi e ai numerosi esperimenti di laboratorio, il team guidato da Maheshwari ha osservato una particolare capacità del tè verde nell’inibire le capacità invasive delle cellule tumorali che colpiscono il seno. Inoltre, precedenti ricerche condotte sempre da Maheshwari hanno dimostrato come il tè verde sia in grado non solo di arginare l’aggressività delle cellule tumorali, ma anche di farle progressivamente regredire fino a ucciderle e renderle completamente innocue.
Numerosi studi epidemiologici sembrano confermare le conclusioni cui sono giunti i ricercatori: il rischio di contrarre il cancro al seno è più basso nelle aree asiatiche in cui il consumo di tè verde è molto diffuso. Questi dati forniscono solide basi per la ricerca di Maheshwari e dimostrano come alcuni nutrienti del tè verde, debitamente isolati, potrebbero essere studiati per la creazione di nuovi e più efficaci farmaci per i trattamenti chemioterapici. La ricerca è naturalmente ancora agli albori, ma il percorso tracciato pare davvero promettente. Non male per una semplice fogliolina di tè.

Studiare l’infarto sui moscerini

Il moscerino della frutta, ingradito 350 volteLa riperfusione è la ripresa del flusso sanguigno in un tessuto, od organo, in cui era stato interrotto causando una forte scarsità di ossigeno. Si tratta di un fenomeno estremamente pericoloso, generalmente legato all’infarto cardiaco o ai casi di rigetto degli organi trapiantati, che porta a numerose morti ogni anno.
Un team di ricercatori della University of Nevada (Las Vegas – USA) e della University of California di San Diego ha scoperto che i danni causati da riperfusione possono essere studiati sui moscerini della frutta, con nuove tecniche estremamente affidabili ed economiche.

«Con questa nuova procedura, i ricercatori possono esplorare i meccanismi dei danni causati da riperfusione con un modello vivente molto conosciuto e molto più economico di quelli basati sui vertebrati» ha dichiarato il prof. John Lighton, che ha curato la ricerca recentemente pubblicata sulla rivista scientifica PLoS ONE. «Utilizzando Drosophila come modello principale, potremmo compiere progressi molto più rapidamente nello studio dei meccanismi della riperfusione, che ancora non riusciamo a comprendere pienamente.» Un passaggio fondamentale per implementare nuove procedura di cura.

Il primo passo di questo innovativo studio è nato, come spesso accade, per caso. I ricercatori hanno casualmente notato che sottoponendo improvvisamente un moscerino della frutta in ipossia (mancanza di ossigeno) a una forte dose di ossigeno si possono creare danni irreparabili al suo sistema respiratorio, e molto simili a quelli causati dal fenomeno della riperfusione.
Partendo da questa scoperta, Lighton e i suoi colleghi hanno rilevato l’entità del danno causato nel sistema respiratorio dei moscerini misurando le quantità di vapor d’acqua e di anidride carbonica perse da ognuno di loro. Il quantitativo di CO2 registrato ha consentito di misurare l’attività dei mitocondri (gli organuli deputati alla respirazione cellulare), mentre il vapore acqueo ha permesso di quantificare lo stato del sistema neuromuscolare di ogni moscerino.
Rilevare quantità così infinitamente piccole non è certo stato semplice, ma ha consentito ai ricercatori di registrare con certezza l’avvenuto fenomeno di riperfusione negli esemplari di Drosophila. Il gruppo di ricerca cercherà ora di sviluppare nuove tecniche per studiare con accuratezza il fenomeno, partendo proprio dai minuscoli moscerini della frutta, i beniamini degli scienziati e dei laboratori da almeno 70 anni.

Cani, più intelligenti del previsto

Per gli amanti dei cani, ogni minima iniziativa presa dal loro migliore amico è la chiara manifestazione di un’intelligenza sopraffina. Questo atteggiamento verso i beniamini a quattro zampe è del tutto naturale: l’affetto porta a osservare in maniera parziale le doti e le qualità delle persone, o in questo caso degli animali, cui vogliamo bene. Eppure, un recente studio ha dimostrato che i cani potrebbero essere – oggettivamente – molto più intelligenti di quanto si pensasse.

Da diverso tempo i cani fanno parte di quella ristretta cerchia di animali considerati interessanti dagli scienziati per la loro capacità di elaborare pensieri astratti. La ricerca ha dimostrato come i cani siano in grado di catalogare gli oggetti in precise categorie mentali: una chiara dimostrazione delle capacità cognitive e di astrazione finora verificata in alcuni primati e poche specie di volatili.
I ricercatori hanno addestrato quattro cani ad utilizzare un particolare touch-screen (uno schermo sensibile al tatto) per scegliere un’immagine tra le due presentate simultaneamente sullo schermo. Una fotografia ritraeva un cane, l’altra un semplice paesaggio. Per indicare la loro preferenza, i quattro animali potevano utilizzare il proprio naso per toccare il touch-screen.
Selezionando l’immagine del cane, i quattro amici dell’uomo ricevevano del cibo in premio, mentre scegliendo il paesaggio erano costretti ad aspettare qualche secondo prima di visualizzare nuovamente le stesse immagini sullo schermo.

Terminata questa prima fase dell’esperimento, i ricercatori hanno proposto ai cani le immagini di alcuni loro simili e di alcuni paesaggi mai visti prima. I quattro animali hanno selezionato nel 72% dei casi le immagini dei cani, dimostrando di essere in grado di possedere il concetto astratto della categoria “cane”, in cui vanno inseriti tutti i cani anche se mai visti, conosciuti e… odorati.
Nella terza parte dell’esperimento, sullo schermo touch-screen sono state presentate le immagini di alcuni paesaggi, taluni con un cane in primo piano. I quattro “volontari” hanno quasi sempre scelto il paesaggio in cui compariva un cane, dimostrando di essere in grado di distinguere non solo tra l’immagine di un paesaggio e quella di un loro simile, ma anche tra due fotografie molto simili tra loro e differenti per un solo particolare.
«Questo notevole risultato dimostra che i cani sono in grado di utilizzare, con le dovute sfumature, i concetti astratti» ha dichiarato con soddisfazione Friederike Range, dell’Università di Vienna, che ha guidato il team di ricercatori e ha pubblicato recentemente il proprio studio sulla rivista scientifica Animal Cognition. [fonte principale: The Guardian]

Un depuratore contro le contaminazioni ospedaliere

Le acque di scarico degli ospedali sono contaminate con farmaci e sostanze chimiche potenzialmente pericolose per l’ambiente. Mentre i rifiuti solidi delle strutture ospedaliere vengono smaltiti con numerose precauzioni, si fa ancora troppo poco per la purificazione delle acque di scarico. Un nuovo impianto, appositamente progettato per risolvere alla radice il problema, potrebbe essere la giusta soluzione per evitare all’ambiente la somministrazione di farmaci non desiderati.

Antibiotici, citostatici, sostanze psicotrope, antinfiammatori. Sono migliaia i farmaci somministrati ogni giorno ai pazienti degli ospedali. Buona parte di queste sostanze viene espulsa naturalmente dal loro organismo per raggiungere gli impianti fognari. Le tracce lasciate da questi medicinali non sono biodegradabili e resistono quindi ai tradizionali metodi di purificazione delle fogne. I farmaci raggiungono così le acque dei fiumi e, pressoché intatti, entrano nel ciclo naturale dell’acqua contaminando l’ambiente. Lo studio di questo fenomeno è relativamente recente, si hanno quindi ancora pochi dati su cui valutare l’impatto delle acque contaminate degli ospedali. Secondo molti esperti, però, il costante depauperamento delle risorse ittiche, la diminuzione dell’effetto degli antibiotici e la ridotta fertilità negli uomini potrebbero essere causati dai farmaci non correttamente smaltiti e ancora presenti nel ciclo dell’acqua.

Per cercare di risolvere il problema, il Duisburg Institute of Energy and Environmental Technology (IUTA), in collaborazione con il Fraunhofer Institute for Environmental, Safety and Energy Technology (UMSICHT), ha sviluppato un nuovo metodo per purificare le acque degli ospedali direttamente alla fonte, prima che le stesse siano immesse negli impianti fognari. Molto versatile e semplice da installare, il dispositivo potrà essere utilizzato in aree specifiche degli ospedali, come i reparti di oncologia che a causa dei farmaci chemioterapici sono tra i reparti più inquinanti delle strutture ospedaliere. Il trattamento messo a punto da IUTA e UMSICHT si è rivelato estremamente efficace. Nei test di laboratorio, il purificatore ha ripulito al 99% le acque di scarico, eliminando anche i farmaci più rersistenti come gli antibiotici, i citostatici e i medicinali per il trattamento del dolore.

Il principio di funzionamento del dispositivo di purificazione è molto semplice, ma estremamente efficace. Le parti solide vengono depositate in una tanica di sedimentazione, mentre le acque contaminate passano in una camera di reazione dove raggi ultravioletti e perossido di idrogeno producono i radicali (dei “ladri” di elettroni) in grado di disgregare e disattivare i principi attivi dei farmaci.
Terminata la fase di sperimentazione, un incentivo consentirà alle strutture ospedaliere della Germania di installare il dispositivo di depurazione nei propri sistemi idrici. Considerati i promettenti risultati ottenuti, con costi relativamente bassi, i depuratori potrebbero essere presto adottati in buona parte dell’Unione Europea. Una buona notizia per l’ambiente, e per i tanti pesci proverbialmente sani che abitano fiumi e mari.

Il miele batte i farmaci per la tosse

Usare il miele per lenire mal di gola e tosse è un’abitudine estremamente diffusa, anche tra culture e popoli molto diversi tra loro. Ma i nutrienti di questa sostanza densa e appiccicosa sono realmente efficaci per combattere i sintomi più fastidiosi delle infezioni alla gola? Un gruppo di scienziati della Pennsylvania State University si è proprio posto questa domanda e ha cercato di misurare l’effettiva efficacia del miele attraverso numerosi test.

miele.jpgDalle analisi condotte, i ricercatori hanno scoperto che alcuni componenti del miele sono in grado di uccidere i microorganismi e di svolgere un’azione antiossidante sui tessuti, compresi naturalmente quelli della gola. I sorprendenti risultati di questo studio sono stati recentemente pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Archives of Paediatric and Adolescent Medicine.
Il miele è dunque in grado di prevenire i danni nella struttura intima della cellula causati dalle infiammazioni innescate in seguito all’attacco di un virus, o di una colonia di batteri.

Nel corso dei propri esperimenti, il team di ricerca ha confrontato l’effetto del miele di grano saraceno con il dextromethorphan, un principio attivo contenuto in un vasto numero di medicinali contro la tosse e il mal di gola. Il dextromethorphan è largamente impiegato nei medicinali da banco per i bambini negli Stati Uniti, mentre è meno diffuso sul mercato europeo. I ricercatori hanno analizzato gli effetti del miele e del principio attivo su 105 bambini affetti da tosse notturna. Lo squadrone di infanti è stato diviso in tre gruppi distinti: a un gruppo è stato somministrato solamente il miele e a un altro unicamente il farmaco a base di dextromethorpahn, mentre all’ultimo gruppo non è stata somministrata alcuna sostanza.

I risultati registrati dal team di ricerca si sono rivelati sorprendenti. I bambini che avevano ricevuto unicamente il miele hanno visto dimezzarsi la frequenza dei colpi di tosse, a fronte di una diminuzione meno sensibile nel gruppo trattato con dextromethorphan. Il miele si è inoltre dimostrato un buon calmante, tale da dimezzare il numero di volte in cui i bambini si sono svegliati e l’intensità complessiva della loro tosse. In tutti i test, il miele si è dimostrato il miglior rimedio per tenere a bada i problemi legati all’infiammazione del cavo orale.
Una buona notizia per i ghiottoni del miele.