L’anomalia dei biondi

Scarlett JohanssonI capelli di colore chiaro sono una naturale variabile genetica tra gli europei e, come rara mutazione, in altre popolazioni. In alcune aree geografiche dell’Europa l’incidenza dei biondi è molto frequente e, in numerosi casi, rimane costante anche nell’età adulta.
Il biondo è una caratteristica genetica abbastanza recente, che divenne rilevante nella popolazione appena 11.000 anni fa durante l’ultima glaciazione. Prima di allora, la maggior parte degli individui avevano capelli e occhi scuri, caratteristica predominante nel resto del mondo.

Non è ancora chiaro come le caratteristiche genetiche del biondo si siano diffuse così rapidamente nel continente europeo. Secondo alcuni antropologi, la sopravvivenza di questi caratteri sarebbe stata assicurata dalla selezione sessuale. Le donne bionde erano poche, ma spiccavano tra la “concorrenza” degli altri individui di sesso femminile con capelli e carnagione scura. Ciò avrebbe consentito al gruppo minoritario di bionde di competere ugualmente nella ricerca del maschio, diffondendo ampiamente il loro codice genetico, anche se costituito da numerosi caratteri recessivi.

I capelli biondi sono molto comuni tra i neonati e i bambini, ma generalmente tendono a scurirsi in età adulta fino a raggiungere una colorazione vicina al castano chiaro. I biondi naturali sono una vera e propria minoranza: in tutto il mondo appena il 2% della popolazione ha le caratteristiche genetiche che si traducono nel fenotipo del biondo. In Europa, la frequenza maggiore è raggiunta nei paesi scandinavi e del nord, mentre scema progressivamente man mano che ci si avvicina all’area del Mediterraneo.

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Mappa dei biondi in Europa

Un mammifero corazzato

Vicino a Salar de Surire, in Cile, esiste il più alto sito di resti fossili al mondo. Collocato a un’altitudine di circa 4.000 metri, questo luogo è da ormai un decennio fonte di continue e sorprendenti scoperte sui grandi mammiferi che popolarono la Terra milioni di anni fa.
Dopo un accurato studio su un ritrovamento del 2004, il prof. Darin Croft (Case Western Reserve University) ha recentemente dichiarato di avere scoperto una nuova specie di gliptodonte, una sorta di “mammifero corazzato”, battezzato Parapropalaehoplophorus septentrionalis. L’importante scoperta è stata pubblicata nell’ultimo numero della rivista scientifica Journal of Vertebrate Paleontology.

Ricostruzione grafica di un gliptodonte della specie Parapropalaehoplophorus septentrionalis [credit: © Velizar Simeonovski]I gliptodonti sono una particolare specie di mammiferi corazzati, ormai estinti, parenti dei moderni armadilli. A differenza di questi ultimi, però, i gliptodonti erano dotati di una corazza completamente rigida e potevano raggiungere enormi dimensioni; si stima che i più grandi esemplari raggiungessero le due tonnellate di peso, quanto un’automobile.
La nuova specie Parapropalaehoplophorus septentrionalis pesava “appena” un quintale e fornisce importanti informazioni sull’estinzione dei gliptodonti, fenomeno che avvenne quasi in contemporanea con l’arrivo dell’uomo nelle Americhe. «Quando abbiamo trovato questo fossile, non immaginavamo di aver scoperto una nuova specie. Sapevamo che si trattava di un importante ritrovamento, grazie all’integrità del fossile, ma solamente dopo un’attenta comparazione con le specie già conosciuto abbiamo capito l’importanza della nostra scoperta» ha dichiarato con entusiasmo Croft.

Scheletro di gliptodonte, la specie scoperta in Chile era notevolmente più piccola [credit: atlasdebuenosaires.gov.ar]Questa nuova specie di gliptodonte rientra nel gruppo di 18 mammiferi preistorici scoperti nell’area di Salar de Surire. Le altre specie includono armadilli, marsupiali, roditori ed alcuni ruminanti. Secondo le indagini condotte da numerosi paleontologi, la flora di questa zona del Chile non doveva essere particolarmente ricca in epoca preistorica, costringendo molti dei mammiferi dell’area a lunghe ore di ricerca per trovare un po’ di cibo. Diciotto milioni di anni fa, l’altipiano non si trovava a 4000 metri di altitudine, ma a livello dell’Oceano. La ricostruzione di quell’ecosistema preistorico potrà fornire nuovi importanti elementi per comprendere gli stadi evolutivi dei primi grandi mammiferi che popolarono il Pianeta.

La specie umana è ancora in piena evoluzione

Numerosi evoluzionisti pensano che il raggiungimento di condizioni di vita molte alte in numerose parti del Pianeta abbia ridotto sensibilmente il nostro processo evolutivo. Una nuova e controversa ricerca potrebbe però sovvertire questo convincimento. Ben distante dall’arrestare la propria corsa, l’evoluzione umana avrebbe accelerato di cento volte negli ultimi 5000 anni. Ciò significa che la specie umana si starebbe evolvendo in diversi tipi autonomi, piuttosto che in un unico ceppo omogeneo.

dna.jpgGuidato dal paleoantropologo Henry Harpending, un gruppo di ricercatori della University of Utah (USA) ha analizzato il DNA di 270 individui, provenienti da ogni parte del mondo, per mappare le variazioni in alcuni geni che determinano la predisposizione a talune malattie. I ricercatori hanno così isolato i casi di polimorfismo a singolo nucleotide, una mutazione che interessa il DNA e che si diffonde attraverso la popolazione. Ottenuti i dati su queste variazioni, il gruppo di ricerca ha sondato migliaia di dati provenienti da Europa, Africa e Asia per valutare l’estensione della mutazione nelle singole popolazioni. Quando una variazione diviene costante nel DNA significa che è vantaggiosa ai fini evolutivi, e viene quindi mantenuta dal nostro codice genetico.

I risultati della ricerca, pubblicati recentemente sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, sono per molti aspetti sorprendenti. Secondo i ricercatori, il processo evolutivo avrebbe subito un’accelerazione in almeno 1800 geni, equivalenti al 7% dell’intero genoma umano. Molte delle mutazioni sono riconducibili all’aumento della natalità: quando una popolazione si espande, aumenta il numero delle variazioni genetiche che possono così portare a benefici per la sopravvivenza della specie. Ciò avviene in maniera pressoché identica tra gli insetti: un’ampia popolazione di parassiti ha molte più probabilità di sviluppare un gene che la renda immune ai pesticidi rispetto a una popolazione numericamente limitata.

Principali stadi dell’evoluzione umanaLa ricerca condotta da Harpending e il suo team non è però qualitativa, ma principalmente quantitativa. Ciò significa che l’identità e le funzioni di quel 7% di geni in rapida mutazione non sono ancora del tutto note. In linea di massima, molte delle informazioni genetiche in evoluzione sarebbero legate alle malattie maggiormente virulente e ai cambiamenti dovuti alle abitudini alimentari. Alcune mutazioni consentono ad alcune popolazioni umane di digerire e metabolizzare meglio l’amido, i grassi saturi e il lattosio.
Lo studio condotto da Harpending è ancora parziale, ma prospetta un processo evolutivo della nostra specie molto più complesso e differenziato di quanto si potesse immaginare. [fonte principale: Science]

Voyager: le sonde maratonete del Cosmo

Le sonde Voyager, da quasi trent’anni, viaggiano nel Cosmo a distanze ormai siderali dalla Terra. Il 30 agosto di quest’anno, la navicella spaziale della NASA Voyager2 – che ha iniziato la propria crociera nello Spazio nel 1977 – ha raggiunto l’area “termination shock”, il confine in cui le particelle del vento solare da supersoniche vengono rallentate a velocità subsonica. In pratica, ai confini della “bolla” dominata dai venti solari emessi dalla nostra stella.

La sonda spaziale Voyager2 fu lanciata nello spazio il 20 Agosto 1977Questo confine era già stato superato tre anni fa dalla gemella di Voyager2: la sonda spaziale Voyager1. A differenza della sua omologa, Voyager2 ha varcato questo confine in un quadrante diverso, a un miliardo e mezzo di chilometri in meno dal Sole. Ciò farebbe presupporre che la “bolla” di vento solare sia in una certa misura compressa nel quadrante del sistema solare in cui ha compiuto il proprio viaggio la sonda. Le due Voyager hanno, infatti, varcato il sistema solare seguendo due percorsi diversi: Voyager1 verso il nord astronomico, Voyager2 verso sud.

«Ora entrambe le navicelle hanno raggiunto la frontiera del sistema solare. Abbiamo raggiunto un nuovo punto fondamentale nella storia trentennale delle nostre scoperte» ha dichiarato entusiasta Edward Stone, che segue da anni il viaggio delle Voyager dal California Institute of Technology (USA).

Molti degli strumenti a bordo della Voyager2, ancora perfettamente funzionanti dopo trent’anni, hanno rilevato il momento del passaggio al di fuori del vento solare, nel bel mezzo dell’area denominata “termination shock”. Un sensore, in particolare, è stato in grado di registrare velocità, temperatura e densità del vento solare. Nel 2004 gli strumenti di Voyager1 fallirono questa misurazione, portando a un ampio e talvolta confuso dibattito sul momento esatto in cui la sonda avrebbe attraversato la “bolla” creata dal vento solare.

Il viaggio delle sonde Voyager, verso i confini del sistema solare [credit: Wikipedia IT]Grazie ai dati rilevati da Voyager2, gli astrofisici hanno scoperto che le particelle con carica elettrica presenti al di fuori della “termination shock” sono molto più freddi del previsto. Secondo i modelli matematici, le particelle dovevano avere una temperatura intorno al milione di gradi centigradi, invece hanno una temperatura che oscilla “appena” tra i 100.000 e i 200.000 gradi.

Finché la NASA continuerà a finanziare le missioni Voyager, tra le più “antiche” dell’Era spaziale, i ricercatori avranno a disposizione dati fondamentali per comprendere molte delle proprietà del Cosmo. Secondo alcune proiezioni, le sonde Voyager dovrebbero terminare la loro fase di passaggio nell’area di transizione in circa dieci anni, raggiungendo così lo spazio interstellare. Salvo imprevisti, le due navicelle diverrebbero i primi due oggetti creati dall’uomo a uscire completamente dal nostro sistema solare. Un evento di portata storica, oltre che simbolica. I generatori radioattivi con cui si alimentano le Voyager dovrebbero assicurare sufficiente energia elettrica ai sistemi per trasmettere dati anche al di fuori dell’area di transizione, nel Cosmo “aperto”.

Voyager1 è ormai a sedici miliardi di chilometri di distanza dal sole, mentre Voyager2 si trova a circa tredici miliardi di chilometri. E il viaggio continua.

Il surriscaldamento globale distruggerà la catena alimentare?

La diminuzione dei livelli di un particolare gas che contribuisce a contrastare il surriscaldamento globale potrebbe causare un drastico aumento delle temperature del Pianeta. Non ha dubbi in proposito il prof. Michael Steinke della University of East Anglia (UK), secondo il quale i cambiamenti climatici potrebbero portare presto a uno sconvolgimento della catena alimentare.

I microbi presenti negli oceani producono un particolare gas, il dimetilsulfide (DMS), un componente alla base della formazione degli strati nuvolosi nell’atmosfera al di sopra dei mari, in grado di riflettere in parte i raggi provenienti dal Sole. Secondo gli studi di Steinke, il plancton regola la produzione di DMS a seconda dell’esposizione solare. Più calda è la temperatura dei microrganismi che lo compongono, più alta è la probabilità che gli stessi emettano grandi quantità di DMS per produrre nubi in grado di raffreddarli, frapponendosi come schermo tra il Sole e la superficie degli oceani. «Questo particolare fenomeno che abbiamo analizzato, è destinato a cambiare radicalmente nei prossimi anni» ha dichiarato in una recente conferenza il prof. Steinke.

Da molti anni i ricercatori cercano di carpire quanti più segreti possibile al plancton e alla loro costante produzione di DMS. Recenti studi hanno dimostrato che le tracce di dimetilsulfide sono utilizzate dai grandi cetacei e dagli uccelli migratori per trovare il cibo e regolare il proprio orientamento durante le traversate degli oceani. «I gas DMS rivestono un ruolo fondamentale nella catena alimentare marina. Se i livelli di questi aerosol dovessero cambiare, molti animali marini rischierebbero di scomparire dal nostro Pianeta, perché incapaci di procacciarsi il cibo. E tutto questo potrebbe riflettersi su un’altra catena alimentare: la nostra».

terra1.jpgIl surriscaldamento globale potrebbe seriamente compromettere questo gigantesco “compressore” che produce ogni giorni centinaia di migliaia di tonnellate di DMS. Il progressivo innalzamento delle temperature potrebbe rendere il plancton incapace di raffreddarsi, distruggendo così il meccanismo perfetto che lo porta a produrre DMS per mantenere la propria temperatura ottimale. Ora il team di ricercatori guidato da Steinke lavorerà all’elaborazione di nuovi modelli matematici per cercare di prevedere, con un certo grado di approssimazione, le possibili conseguenze causate da una progressiva carenza di DMS su scala planetaria. [fonte principale: www.socgenmicrobiol.org.uk]

Un ominide con la tubercolosi

Un nuovo importante ritrovamento di ossa fossili potrebbe svelare alcuni segreti dei lontani antenati del genere umano. La scoperta è avvenuta vicino a Denizli, una città della Turchia, in cui sono stati ritrovati i resti di un cranio umano risalente a circa mezzo milione di anni fa. Nonostante i pochi frammenti ritrovati, il fossile rivela il più antico caso finora conosciuto di tubercolosi della Storia.

Il cantiere di Denizli (basso) e i resti fossili del cranio (in alto) [Credit: John Kappelman/University of Texas, Austin]Il Medio Oriente è stato per migliaia di anni un importante crocevia per le prime popolazioni nomadi di umani. «Da alcuni anni, ci è ormai chiaro che i primi ominidi si siano dispersi per l’Europa passando dalle regioni occidentali dell’Asia e dall’Africa, rendendo l’attuale territorio della Turchia un punto di passaggio obbligato» ha dichiarato il paleoantropologo Philip Rightmire alla rivista scientifica Science.
Sulla base di queste conoscenze, antropologi e paleontologi hanno intensificato per anni le ricerche dei diretti antenati dell’uomo, Homo erectus, in Turchia. Ironia della sorte, i resti fossili di Danizli non sono stati ritrovati dai ricercatori, ma da un gruppo di operai impegnati in un cantiere. Allertato un team di ricerca internazionale già presente in Turchia, i responsabili del cantiere hanno permesso la fondamentale scoperta, riportata sull’ultimo numero della rivista specializzata American Journal of Physical Anthropology.

Homo erectus e Homo sapiens sapiens a confronto [credit: outofafricaintoasia.tripod.com]Secondo i ricercatori che hanno curato lo studio, i resti fossili apparterrebbero a un esemplare di Homo erectus, o – con meno probabilità – di un Homo Heidelbergensis, un diretto parente dell’uomo di Neanderthal.
Un’analisi approfondita dei frammenti cranici ha messo in evidenza i tipici segni causati dal Leptomeningitis tuberculosa, un batterio che causa una particolare forma di tubercolosi che aggredisce le membrane cerebrali. Secondo i ricercatori, le cicatrici fossilizzate rappresenterebbero una forma primordiale di questa malattia nell’uomo. La presenza della tubercolosi può fornire, inoltre, numerosi indizi sull’aspetto fisico di questo individuo vissuto mezzo milione di anni fa. L’ominide doveva essere molto probabilmente di carnagione scura, un vero e proprio handicap per i primi esseri umani che migrarono verso nord. La minore quantità di esposizione al sole comportava, infatti, una sensibile carenza di vitamina D con un inevitabile abbassamento delle risorse immunitarie. In queste condizioni il batterio della tubercolosi avrebbe trovato un ottimo terreno su cui attecchire e proliferare.

La scoperta di Denizli apre nuove affascinanti prospettive per lo studio dell’evoluzione umana. Per la prima volta, infatti, i paleoantropologi potranno mettere in relazione le migrazioni verso nord con il progredire di alcune patologie, sopravvissute fino ai giorni nostri. Un passaggio fondamentale per comprendere appieno il lento processo evolutivo che in centinaia di migliaia di anni ha portato all’Homo sapiens sapiens. L’ultima tappa della nostra evoluzione.