Così l’influenza aviaria del 1918 divenne epidemia

I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology sono riusciti nella difficile impresa di comprendere come due mutazioni del virus H1N1, dell’influenza aviaria, siano state fondamentali nella diffusione della malattia tra gli esseri umani, che causò nel corso del 1918 circa 50 milioni di vittime.

H1N1Il gruppo di ricerca ha dimostrato come l’influenza del 1918 sviluppò due mutazioni sulla superficie di una molecola nota come emoagglutinina (HA), che permisero al virus di attecchire con molta più facilità nelle vie respiratorie superiori dell’organismo umano. L’importante scoperta, che potrebbe fornire informazioni per lo studio dei nuovi virus dell’influenza aviaria, è stata effettuata al MIT dal team guidato dal prof. Ram Sasisekharan, che ha pubblicato i risultati della ricerca sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).
Come dimostrò Sasisekharan in uno studio precedente, i virus dell’influenza possono fare breccia nelle cellule dell’apparato respiratorio quando sono in grado di combaciare con la forma dei recettori (glicani) presenti sulle membrane cellulari. I recettori tipici delle cellule dell’apparato respiratorio umano sono conosciuti come recettori alpha 2-6, e si presentano con forme che ricordano quella di un cono e di un ombrello aperto. Per diffondersi nell’organismo, i ricercatori hanno scoperto che il virus dell’influenza aviaria deve forzatamente acquisire la capacità di legarsi con il recettore a forma di ombrello. Leggi tutto “Così l’influenza aviaria del 1918 divenne epidemia”

Le onde cerebrali rivelano il dolore

La registrazione delle onde cerebrali potrebbe offrire il primo metodo oggettivo per misurare l’intensità del dolore. Un gruppo di ricercatori ha infatti identificato un segnale neuronale legato in maniera diretta alla quantità di dolore percepita da un individuo. Il segnale potrebbe essere utilizzato per affinare le tecniche di misurazione del dolore, basate su procedimenti oggettivi e verificabili.

Prima di questa scoperta, alcune cellule del cervello attivate dal dolore erano già state scoperte, ma erano in grado di offrire informazioni meramente binarie: dolore/non dolore. Ora, il prof. Morten Kringelbach della University of Oxford (Regno Unito) ha identificato alcune onde cerebrali a bassa frequenza emesse da due regioni profonde del cervello quando un individuo percepisce una sensazione dolorosa. Analizzando queste emissioni, il team di ricerca guidato da Kringelbach ha scoperto una proporzionalità diretta nel fenomeno: all’aumentare del dolore aumenta la durata delle onde emesse dal cervello.
Per misurare l’attività cerebrale, i ricercatori hanno collocato due elettrodi nel talamo (una struttura del sistema nervoso centrale) e nella sostanza grigia periacqueduttale di dodici volontari affetti da dolore cronico. Durante le registrazioni, il team ha stimolato aree sensibili e insensibili al dolore dei pazienti, cui è stato richiesto di indicare l’intensità del male percepito. La durata delle onde registrare aumentava considerevolmente all’aumentare del dolore percepito dai volontari. Leggi tutto “Le onde cerebrali rivelano il dolore”

Un “chip laboratorio” per studiare il cervello

Un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins University ha sviluppato un mini laboratorio grande quanto un chip, appositamente progettato per riprodurre la complessità chimica del nostro cervello. Il sistema dovrebbe consentire agli scienziati di capire con maggior precisione il funzionamento delle cellule nervose, nonché la loro capacità di unirsi e fondersi in strutture più complesse che danno poi vita al sistema nervoso vero e proprio.

«Il chip che abbiamo sviluppato consentirà di condurre esperimenti sulle cellule nervose in maniera molto più semplice e rapida» ha dichiarato Andre Levchenko, docente di ingegneria biomedica all’Institute for NanoBioTechnology della Johns Hopkins.
Le cellule nervose stabiliscono in che direzione crescere in base all’ambiente chimico in cui si trovano e agli altri apparati cellulari che le circondano. Il chip, realizzato con una sostanza simile alla plastica e ricoperto di vetro, è dotato di microscopici canali e incavi che consentono ai ricercatori di tenere sotto controllo la composizione chimica dell’ambiente in cui “galleggia” la cellula nervosa. Leggi tutto “Un “chip laboratorio” per studiare il cervello”

Sarà un’alga a salvarci dal cancro?

microscopioPassa dalle profondità degli oceani la nuova speranza per combattere il cancro. Un team internazionale di ricercatori, guidato da Dennis Carson dell’University of California (San Diego, USA), ha identificato una nuova e promettente arma contro i tumori. Il principio attivo è stato isolato da una particolare alga tossica rinvenuta in un’area meridionale dell’Oceano Pacifico. Le proprietà della somocistinamide A (ScA), la sostanza isolata, sono descritte nel numero della rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Science in uscita questa settimana.

«Siamo estremamente entusiasti per aver scoperto un nuovo composto strutturalmente unico ed estremamente potente per la lotta contro il cancro. Crediamo sarà perfetto per le tecnologie emergenti, in particolare le nanotecnologie, implementate per colpire le cellule tumorali senza effetti collaterali per i pazienti» ha dichiarato il prof. Dwayne G. Stupack, che ha contribuito alla considerevole scoperta.

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I liquidi caldi stimolano il rilascio di sostanze pericolose in alcune plastiche alimentari

La contaminazione da Bisfenolo A (BPA), un componente potenzialmente pericoloso presente nelle plastiche alimentari, dipende maggiormente dalla temperatura del cibo che dal grado di usura del contenitore. Questa l’interessante conclusione cui è giunto un team di ricercatori della University of Cincinnati (USA), impegnato a misurare le quantità di Bisfenolo A presente nei policarbonati.

Bottiglie in plasticaIl prof. Scott Belcher e il suo gruppo di ricerca hanno scoperto che l’esposizione di bottiglie di plastica, vecchie e nuove, a della semplice acqua bollente aumenta di circa 55 volte il rilascio di Bisfenolo A, un composto organico in grado di imitare il comportamento di alcuni estrogeni (i principali ormoni sessuali femminili).
«Studi precedenti avevano dimostrato come, messe a dura prova con temperature molto alte e incisioni sulla loro superficie, le bottiglie di plastica rilasciassero grandi quantitativi di BPA. Partendo da queste esperienze, abbiamo provato a misurare l’emissione di Bisfenolo A che potrebbe verificarsi con un utilizzo normale di questi materiali, cercando di capire quali potessero essere le principali cause responsabili del rilascio di BPA» ha dichiarato il prof. Belcher, che ha guidato la ricerca.

Prima di compiere i loro esperimenti in laboratorio, i ricercatori hanno cercato di capire per quali scopi vengano normalmente utilizzate le bottiglie di plastica e per quanto tempo, prima di essere definitivamente buttate o riciclate. È così emerso un dato sorprendente: anche a distanza di sei/sette anni dalla loro produzione, le bottiglie di plastica rilasciano lo stesso ammontare di BPA rispetto ai contenitori appena prodotti. La principale causa che comporta la contaminazione da BPA non è però data dall’età delle bottiglie, ma dalla temperatura del liquido riversato al loro interno. Maggiore è il calore sviluppato, maggiori sono i quantitativi di BPA rilasciati dai policarbonati che costituiscono la bottiglia.
Per giungere a questo risultato, i ricercatori hanno analizzato per sette giorni consecutivi alcune comunissime bottigliette di plastica per l’acqua, vecchie e nuove, simulandone un normale utilizzo. Tutte le bottiglie hanno rilasciato gli stessi quantitativi di BPA, senza alcuna sostanziale differenza. I livelli di Bisfenolo A sono sensibilmente aumentati quando le bottiglie sono state sottoposte a temperature molto alte. In questo caso, i BPA hanno contaminato l’acqua a velocità sempre più alte, da 15 a 55 volte rispetto alle condizioni standard misurate precedentemente. Da 0,2-0,8 nanogrammi per ora, si è passati a 8-32 nanogrammi ogni sessanta minuti. Leggi tutto “I liquidi caldi stimolano il rilascio di sostanze pericolose in alcune plastiche alimentari”

Niente caffè per i diabetici

Secondo un gruppo di ricercatori del Duke University Medical Center (Stati Uniti), le quantità di caffeina presenti in caffè, tè e bibite gassate sono in grado di aumentare sensibilmente il livello di zuccheri nelle persone affette dal diabete di tipo 2 e potrebbero compromettere il regolare controllo della malattia.

coffee.jpgL’importante scoperta è stata resa possibile grazie a un nuovo apparato diagnostico, in grado di rilevare i livelli di glucosio (zucchero) nei pazienti lungo l’intero corso della giornata. Un risultato eccezionale per il prof. James Lane, che ha curato la ricerca ed è riuscito per la prima volta a tracciare con precisione l’andamento degli zuccheri nelle persone affette da diabete di tipo 2. In pubblicazione sul numero di febbraio della rivista scientifica Diabetes Care, la ricerca dimostra come i livelli di glucosio nel sangue divengano molto più stabili e controllabili eliminando la caffeina dalla dieta dei pazienti.

Lane ha analizzato una decina di pazienti con il diabete di tipo 2, che bevevano mediamente due tazze di caffè americano al giorno e cercavano di tenere a bada la loro malattia attraverso la dieta, l’esercizio fisico e alcuni farmaci per via orale, evitando così le iniezioni di insulina. A ogni paziente, Lane ha affidato un piccolo dispositivo portatile per la rilevazione dei livelli di glucosio in un periodo di circa 72 ore. Il ricercatore ha poi affidato ai partecipanti al test tre diverse confezioni, dotate di alcune capsule contenti caffeina e alcune riempite con un semplice placebo. A parte la colazione, uguale per tutti i pazienti, gli altri pasti della giornata erano liberi.

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