Il coleottero che arrossisce

Il coleottero Cassidini, appartenente alla famiglia Chrysomelidae, vive principalmente in Centro America nello Stato di Panama. Questo particolare insetto è in grado di tramutare la colorazione del proprio “guscio” da una tinta oro brillante al rosso in meno di due minuti. Mentre molti coleotteri modificano la loro colorazione esterna in virtù di specifiche variabili come la temperatura, questo inquilino del Centro America è una delle poche creature conosciute in grado di controllare autonomamente il cambiamento della pigmentazione del proprio organismo.

Coleottero Cassidini [credit: Jean-Pol Vigeron]

Il segreto di questo piccolo insetto risiede nella sua capacità di modificare i flussi dei fluidi all’interno del proprio esoscheletro, costituito da una ventina di strati che cambiano colorazione quando sono colpiti dal sole. Quando la luce illumina gli strati dell’esoscheletro, il coleottero mostra la propria normale colorazione dorata. Per cambiare colore, questo piccolo insetto non fa altro che “asciugare” il proprio esoscheletro dall’umidità, così da assorbire una maggiore quantità di luce che, non riflettendosi, dà vita alla colorazione rossastra.
Lo scopo di questa trasformazione non è ancora del tutto chiaro, ma molti ricercatori suppongono che il coleottero arrossisca per allontanare i predatori fingendosi un insetto velenoso.

Secondo il ricercatore Jean-Pol Vigneron (Università di Namur – Belgio), che ha recentemente pubblicato una ricerca su questo insetto per l’American Physical Society, le proprietà del coleottero potrebbero essere presto imitate per creare una nuova generazione di materiali in grado di modificarsi con l’umidità. Le applicazioni potrebbero essere svariate dai vasi di fiori per segnalare l’aridità del terriccio alle lavagne ad acqua a nuove garze “intelligenti” per le medicazioni. E tutto per merito di un piccolo coleottero che, non certo per timidezza, è solito arrossire…

Coleottero Cassidini [credit: www.mobot.org]

Voyager: le sonde maratonete del Cosmo

Le sonde Voyager, da quasi trent’anni, viaggiano nel Cosmo a distanze ormai siderali dalla Terra. Il 30 agosto di quest’anno, la navicella spaziale della NASA Voyager2 – che ha iniziato la propria crociera nello Spazio nel 1977 – ha raggiunto l’area “termination shock”, il confine in cui le particelle del vento solare da supersoniche vengono rallentate a velocità subsonica. In pratica, ai confini della “bolla” dominata dai venti solari emessi dalla nostra stella.

La sonda spaziale Voyager2 fu lanciata nello spazio il 20 Agosto 1977Questo confine era già stato superato tre anni fa dalla gemella di Voyager2: la sonda spaziale Voyager1. A differenza della sua omologa, Voyager2 ha varcato questo confine in un quadrante diverso, a un miliardo e mezzo di chilometri in meno dal Sole. Ciò farebbe presupporre che la “bolla” di vento solare sia in una certa misura compressa nel quadrante del sistema solare in cui ha compiuto il proprio viaggio la sonda. Le due Voyager hanno, infatti, varcato il sistema solare seguendo due percorsi diversi: Voyager1 verso il nord astronomico, Voyager2 verso sud.

«Ora entrambe le navicelle hanno raggiunto la frontiera del sistema solare. Abbiamo raggiunto un nuovo punto fondamentale nella storia trentennale delle nostre scoperte» ha dichiarato entusiasta Edward Stone, che segue da anni il viaggio delle Voyager dal California Institute of Technology (USA).

Molti degli strumenti a bordo della Voyager2, ancora perfettamente funzionanti dopo trent’anni, hanno rilevato il momento del passaggio al di fuori del vento solare, nel bel mezzo dell’area denominata “termination shock”. Un sensore, in particolare, è stato in grado di registrare velocità, temperatura e densità del vento solare. Nel 2004 gli strumenti di Voyager1 fallirono questa misurazione, portando a un ampio e talvolta confuso dibattito sul momento esatto in cui la sonda avrebbe attraversato la “bolla” creata dal vento solare.

Il viaggio delle sonde Voyager, verso i confini del sistema solare [credit: Wikipedia IT]Grazie ai dati rilevati da Voyager2, gli astrofisici hanno scoperto che le particelle con carica elettrica presenti al di fuori della “termination shock” sono molto più freddi del previsto. Secondo i modelli matematici, le particelle dovevano avere una temperatura intorno al milione di gradi centigradi, invece hanno una temperatura che oscilla “appena” tra i 100.000 e i 200.000 gradi.

Finché la NASA continuerà a finanziare le missioni Voyager, tra le più “antiche” dell’Era spaziale, i ricercatori avranno a disposizione dati fondamentali per comprendere molte delle proprietà del Cosmo. Secondo alcune proiezioni, le sonde Voyager dovrebbero terminare la loro fase di passaggio nell’area di transizione in circa dieci anni, raggiungendo così lo spazio interstellare. Salvo imprevisti, le due navicelle diverrebbero i primi due oggetti creati dall’uomo a uscire completamente dal nostro sistema solare. Un evento di portata storica, oltre che simbolica. I generatori radioattivi con cui si alimentano le Voyager dovrebbero assicurare sufficiente energia elettrica ai sistemi per trasmettere dati anche al di fuori dell’area di transizione, nel Cosmo “aperto”.

Voyager1 è ormai a sedici miliardi di chilometri di distanza dal sole, mentre Voyager2 si trova a circa tredici miliardi di chilometri. E il viaggio continua.

Un depuratore contro le contaminazioni ospedaliere

Le acque di scarico degli ospedali sono contaminate con farmaci e sostanze chimiche potenzialmente pericolose per l’ambiente. Mentre i rifiuti solidi delle strutture ospedaliere vengono smaltiti con numerose precauzioni, si fa ancora troppo poco per la purificazione delle acque di scarico. Un nuovo impianto, appositamente progettato per risolvere alla radice il problema, potrebbe essere la giusta soluzione per evitare all’ambiente la somministrazione di farmaci non desiderati.

Antibiotici, citostatici, sostanze psicotrope, antinfiammatori. Sono migliaia i farmaci somministrati ogni giorno ai pazienti degli ospedali. Buona parte di queste sostanze viene espulsa naturalmente dal loro organismo per raggiungere gli impianti fognari. Le tracce lasciate da questi medicinali non sono biodegradabili e resistono quindi ai tradizionali metodi di purificazione delle fogne. I farmaci raggiungono così le acque dei fiumi e, pressoché intatti, entrano nel ciclo naturale dell’acqua contaminando l’ambiente. Lo studio di questo fenomeno è relativamente recente, si hanno quindi ancora pochi dati su cui valutare l’impatto delle acque contaminate degli ospedali. Secondo molti esperti, però, il costante depauperamento delle risorse ittiche, la diminuzione dell’effetto degli antibiotici e la ridotta fertilità negli uomini potrebbero essere causati dai farmaci non correttamente smaltiti e ancora presenti nel ciclo dell’acqua.

Per cercare di risolvere il problema, il Duisburg Institute of Energy and Environmental Technology (IUTA), in collaborazione con il Fraunhofer Institute for Environmental, Safety and Energy Technology (UMSICHT), ha sviluppato un nuovo metodo per purificare le acque degli ospedali direttamente alla fonte, prima che le stesse siano immesse negli impianti fognari. Molto versatile e semplice da installare, il dispositivo potrà essere utilizzato in aree specifiche degli ospedali, come i reparti di oncologia che a causa dei farmaci chemioterapici sono tra i reparti più inquinanti delle strutture ospedaliere. Il trattamento messo a punto da IUTA e UMSICHT si è rivelato estremamente efficace. Nei test di laboratorio, il purificatore ha ripulito al 99% le acque di scarico, eliminando anche i farmaci più rersistenti come gli antibiotici, i citostatici e i medicinali per il trattamento del dolore.

Il principio di funzionamento del dispositivo di purificazione è molto semplice, ma estremamente efficace. Le parti solide vengono depositate in una tanica di sedimentazione, mentre le acque contaminate passano in una camera di reazione dove raggi ultravioletti e perossido di idrogeno producono i radicali (dei “ladri” di elettroni) in grado di disgregare e disattivare i principi attivi dei farmaci.
Terminata la fase di sperimentazione, un incentivo consentirà alle strutture ospedaliere della Germania di installare il dispositivo di depurazione nei propri sistemi idrici. Considerati i promettenti risultati ottenuti, con costi relativamente bassi, i depuratori potrebbero essere presto adottati in buona parte dell’Unione Europea. Una buona notizia per l’ambiente, e per i tanti pesci proverbialmente sani che abitano fiumi e mari.

Scarafaggi robot e scelte di gruppo

Un gruppo di ricercatori della Vrije Universiteit Brussel ha recentemente creato una nuova generazione di robot in grado di interagire con… gli scarafaggi. Come dei provetti pifferai magici, questi minuscoli concentrati di tecnologia comunicano con gli scarafaggi, convincendoli a seguirli lungo un determinato percorso. I risultati di questa innovativa, e curiosa, ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Science e non serviranno certo per elaborare nuovi metodi di disinfestazione, ma per studiare con maggiore accuratezza le scelte comportamentali di questi insetti. «Gli scarafaggi agiscono in gruppo, cercano di muoversi sempre insieme. Ci siamo quindi chiesti: “Come riescono a coordinare le decisioni? Chi comanda? Che genere di informazioni si scambiano? In che modo le condividono?» ha dichiarato Jose Halloy, alla guida del team di ricercatori.

Scarafaggi alle prese con un loro simile robotizzato [credit: ULB-EPFL]Per osservare il comportamento degli scarafaggi, il gruppo di ricerca ha ricreato un particolare ambiente in cui ha installato un paio di tane molto particolari dotate di un doppio intercapedine, in cui gli insetti si potessero nascondere molto rapidamente se esposti alla luce, elemento che rifuggono istintivamente. Inseriti in questo particolare ambiente, gli scarafaggi hanno vagato senza una meta precisa per un po’ di tempo, per poi ritrovarsi tutti sotto la medesima tana. Che questi insetti si siano riuniti sotto un’unica tana non ha sorpreso più di tanto i ricercatori, gli scarafaggi sono infatti estremamente socievoli. Nonostante ciò, la mente di uno scarafaggio è molto poco evoluta e non consente la creazione di un “pensiero”, se pur istintivo, legato al concetto di leader. Il fatto che tutti gli esemplari abbiano scelto la medesima tana è dunque parso come un fenomeno “magico” agli occhi dei ricercatori.

Scarafaggi naturali e scarafaggi robot [credit: homepages.ulb.ac.be/~jhalloy/]Secondo numerosi entomologi, gli scarafaggi basano la loro decisione sulla direzione da percorrere in base a due criteri: la quantità di oscurità di un determinato luogo e quanti “colleghi” possono trovare in quel posto. Quando un certo numero di scarafaggi costituisce una massa critica riunita in un medesimo luogo, accade che gli altri esemplari seguano la massa unendosi al gruppo.
Partendo da questo presupposto, Halloy e i suoi colleghi hanno pensato di creare un meccanismo in grado di spingere gli scarafaggi a compiere un gesto innaturale. La scelta è ricaduta così sulla costruzione di alcuni scara-bot, piccoli insetti robotizzati, in grado di condizionare il comportamento degli scarafaggi. Debitamente cosparsi con una particolare sostanza odorosa, gli scara-bot sono stati facilmente riconosciuti e accettati dalla comunità di scarafaggi. Programmati con un semplice software in grado di far preferire ai robot l’oscurità e i luoghi affollati, gli scarafaggi artificiali si sono perfettamente integrati senza destare alcun sospetto tra i loro simili naturali.

Scarafaggi si raggruppano sotto la medesima tana dello scara-bot [credit: Jean-Louis Deneubourg]I ricercatori hanno poi modificato il software degli scara-bot, insegnando loro a prediligere ambienti meno oscuri, quindi meno tollerati dagli scarafaggi. Inseriti nel particolare ambiente ricreato per gli esperimenti, gli scarafaggi – naturali e non – hanno vagato senza una precisa meta per diversi minuti. Gli scara-bot si sono poi rifugiati nella tana maggiormente luminosa e per questo meno gradita agli scarafaggi. Nonostante ciò, gli insetti hanno imitato il comportamento dei robot rifugiandosi nella loro stessa tana. Questo considerevole risultato dimostra in maniera diretta quanto un ristretto gruppo di insetti sia in grado di prendere una decisione collettiva, successivamente condivisa dall’intera comunità.

Questa peculiarità potrebbe essere estesa ad insetti e animali molto più complessi. Non a caso i ricercatori sono ora impegnati nella creazione di un particolare robot per analizzare il comportamento dei polli. Da questo genere di studi potrebbero giungere molti elementi per approfondire le nostre conoscenze non solo nelle procedure cognitive degli animali, ma anche nella creazione di un’intelligenza artificiale sempre più complessa e autonoma: il futuro della robotica.
Certo, un robot-pifferaio magico contro gli scarafaggi non sarebbe poi tanto male…

Celle combustibili più efficienti grazie ai batteri

Apportando particolari modifiche a un prototipo di celle a combustibile, un gruppo di ricercatori è riuscito a far produrre idrogeno a dei comunissimi batteri con un altissimo grado di efficienza. Coadiuvato dai suoi colleghi della Penn State University, il prof. Bruce Logan era già riuscito a dimostrare con successo la possibilità di produrre energia elettrica grazie ad alcuni microbi. Ora, partendo da materiali molto semplici, il team di ricerca è riuscito a “convincere” quelli stessi microbi a produrre idrogeno.

credit: psu.edu Dopo aver sperimentato alcune modifiche, migliorando il microclima per i batteri e modulando alcune piccole scariche elettriche, il gruppo di ricercatori è riuscito nella considerevole impresa di portare la produzione di idrogeno da esseri viventi a un nuovo record.
«Abbiamo ottenuto la più alta produzione di idrogeno mai raggiunta con questo tipo di procedimento legato a sorgenti organiche. Utilizzando l’aceto abbiamo raggiunto un efficienza produttiva pari al 91%, con la comune cellulosa il 68%» ha dichiarato entusiasta Bruce Logan, responsabile del progetto scientifico. Nella maggior parte degli esperimenti, praticamente tutto l’idrogeno contenuto nelle molecole di partenza è stato convertito dai batteri in gas, con un efficienza che potrebbe aprire le porte per una nuova era nella produzione di idrogeno per celle a combustibile su larga scala.
I risultati della ricerca sono stati recentemente pubblicati sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.

Cella combustibile [credit: nsf.gov] Esistono altri sistemi che consentono la produzione di idrogeno su larga scala, ma praticamente nessuno raggiunge il livello di efficienza energetica. «Questo è possibile perché i batteri sono in grado di estrarre con estrema rapidità ed efficacia l’energia dalla materia organica» ha dichiarato Logan.
I ricercatori coinvolti nello studio intendono ora perfezionare ulteriormente la loro scoperta, rendendo l’habitat dei batteri nella cella a combustibile sempre più simile a quello in cui normalmente vivono. Ciò dovrebbe aumentare ulteriormente l’efficienza energetica ottenuta fino a dieci volte rispetto ai processi di elettrolisi oggi esistenti. La nuova cella a combustibile potrebbe rendere molto più performanti numerosi dispositivi, nonché accelerare l’eterna gestazione dell’auto a idrogeno.

Dalle falene e dalle cicale una nuova tecnologia per i pannelli solari

Progettare pannelli solari più efficienti parrebbe una questione legata alla chimica e all’elettronica, ma non per un gruppo di ingegneri della University of Florida intenti a studiare le proprietà di alcuni insetti, che potrebbero portare a un sensibile miglioramento nell’efficienza dei pannelli fotovoltaici.
Secondo Peng Jiang, ingegnere chimico alla guida del progetto, le particolari strutture degli occhi delle falene (le “farfalle notturne”) e delle ali delle cicale potrebbero portare alla creazione di una nuova generazione di pannelli solari, dotati di un innovativo rivestimento anti-riflesso e completamente idrorepellente.

Nei laboratori, alla ricerca dei segreti della Natura… [credit: Photo: © Ray Carson, University of Florida]“La Natura è una grande innovatrice” ha dichiarato entusiasta Jiang. “Ciò che davvero mi interessa è imitare il più fedelmente possibile le strutture di alcuni sistemi biologici, per poterle poi impiegare negli oggetti che utilizziamo quotidianamente”.
Pubblicata sulla rivista scientifica Physics Letters, la ricerca di Jiang è focalizzata su una nuova tecnica costruttiva per produrre un rivestimento caratterizzato da una struttura microscopica molto simile a quella degli occhi delle falene. Gli organi della vista di questi insetti sono organizzati in un fitto reticolo di settori esagonali. Ogni settore è a sua volta strutturato in migliaia di minuscoli rigonfiamenti, con un diametro di meno di 300 nanometri (un nanometro corrisponde a un milionesimo di millimetro) visibile solo attraverso le potenti lenti dei microscopi elettronici.
Quando le falene sono esposte alla luce, queste minuscole migliaia di protuberanze interferiscono con la sua trasmissione e rifrazione assorbendola completamente. Secondo gli entomologi, questa particolare proprietà consentirebbe alle falene di vedere anche in presenza di pochissima luce, evitando allo stesso tempo di creare riflessi che potrebbero essere colti dai famelici predatori notturni.

Particolare al microscopio elettronico di un occhio di falena [credit: Scharfphoto.com]Per replicare questa particolare struttura nei rivestimenti dei pannelli solari, Jiang ha elaborato una semplicissima ed economica procedura. La cellula fotovoltaica da trattare viene collocata sopra a un comunissimo rotore. Dopodiché si procede a cospargere la superficie con una sospensione di nanoparticelle (un particolare liquido denso di particelle minuscole). Attivando il rotore, la cellula ruota molto velocemente generando una forte forza centrifuga che distribuisce uniformemente il liquido sulla sua superficie. Una volta asciutto, il liquido solidifica costituendo uno strato con una struttura del tutto simile a quella degli occhi delle falene.
Utilizzando questa tecnica, Jiang è riuscito a creare superfici antiriflesso adatte non solo ai pannelli fotovoltaici, ma anche agli schermi dei monitor, ai vetri e alle lenti degli occhiali.

Particolare della superficie di un’ala di cicalaFiero della sua scoperta, Jiang ha poi utilizzato la medesima procedura per applicare un ulteriore strato ai pannelli fotovoltaici, questa volta basato sulla struttura delle ali delle cicale.
Le ali di questi insetti sono infatti incredibilmente idrorepellenti per resistere agli ambienti umidi in cui spesso vivono. La loro struttura è molto simile a quella degli occhi delle falene, ma non viene utilizzata tanto per assorbire la luce, quanto per non far aderire l’acqua, che così resta sospesa su un sottilissimo strato d’aria creato dalle migliaia di minuscole protuberanze. Copiando ancora una volta la Natura, Jiang ha ottenuto una superficie in grado di repellere l’acqua con un’efficienza sorprendente.

I rivestimenti sviluppati da Jiang e il suo team potranno essere applicati per ottimizzare la resa dei pannelli solari. Gli attuali strati con cui sono rivestiti riflettono più del 10% della luce che ricevono, limitando considerevolmente l’efficienza di ogni pannello. Con il “rivestimento falena/cicala” i ricercatori sono riusciti ad abbattere ad appena il 2% la quantità di luce riflessa. Inoltre, grazie alle sue proprietà idrorepellenti, i costi di manutenzione per ripulire e mantenere efficienti i pannelli potrebbero essere ridotti al minimo.
La scoperta di Jiang potrà naturalmente essere applicata anche ad altri materiali, dalle banali finestre agli schermi per i computer, passando per gli occhiali da vista e i display dei cellulari.
La tecnica per “spalmare” il “rivestimento falena/cicala” deve essere ancora perfezionato, ma Jiang e i suoi colleghi sono molto ottimisti, la produzione industriale potrebbe iniziare entro pochi anni.