La nostra memoria “chiude” appena ci addormentiamo

Inutile sussurrare parole dolci alla vostra metà appena si è addormentata. Un gruppo di neurologi ha recentemente dimostrato che le aree del cervello deputate a recepire il linguaggio e a conservarne un ricordo si disattivano nell’imminenza delle prime fasi del sonno. La ricerca, effettuata su pazienti sedati con un particolare principio attivo, verrà ora estesa al sonno “naturale” e non indotto.

sleep.jpgUn gruppo di ricercatori guidati da Matt Davis, del Medical Research Council Cognition and Brain Sciences Unity (Cambridge, UK), ha studiato le reazioni di 12 volontari sotto l’effetto di un particolare anestetico, il Propofol, in grado di indurre differenti livelli di sonnolenza a seconda delle dosi somministrate.
Durante i test, ai volontari addormentati sono stati proposti brani musicali e discorsi registrati, mentre una particolare strumentazione registrava le loro onde cerebrali. Le parti del cervello deputate al riconoscimento del linguaggio hanno mostrato una discreta attività, ma le aree in cui le parole vengono interpretate e catalogate si sono dimostrate del tutto inattive, così come quelle zone deputate alla formazione di un ricordo legato a un discorso.

Attività cerebrali registrate in un volontario cosciente e poi sedato [photo credit: MRC]I risultati dei test suggeriscono che, durante le prime fasi di sonno, il cervello disattivi i complessi meccanismi legati alle aree del linguaggio e della memoria, rendendo praticamente impossibile il ricordo di ciò che si è ascoltato nell’imminenza dell’assopimento.
Pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy Sciences, la ricerca ha anche dimostrato come la capacità di comprendere un discorso possa essere completamente compromessa con bassissimi livelli di sedazione. Ciò confermerebbe l’esperienza molto comune dei vuoti di memoria legati ai discorsi ascoltati prima di addormentarsi e dimenticati al mattino.

La scoperta effettuata dal team di ricerca guidato da Davis apre nuovi interessanti campi di ricerca sulle complesse attività cerebrali coinvolte nei cicli del sonno, ma anche nella ricerca di nuovi principi attivi e dosaggi per gli anestetici utilizzati in ambito clinico.
Gli innovativi risultati ottenuti potranno poi essere utilizzati per comprendere con maggior precisione l’esperienza cognitiva delle persone in stato vegetativo, aiutando i neurologi a comprendere quali aree del ricordo e della percezione rimangano attive nelle fasi di coma.

Nasce bloGalileoTV

Nasce oggi bloGalileoTV, la televisione della “Scienza che orbita intorno”. Accessibile dal tab in alto a destra nella barra di navigazione, bloGalileoTV offrirà i filmati più belli e suggestivi legati al mondo delle scienze e delle tecnologie.
In una prima fase di rodaggio, bloGalileoTv offrirà una serie di video a rotazione su astronomia, esplorazione dello spazio, animali, insetti e qualche altra curiosità. A queste immagini di repertorio si aggiungeranno presto nuovi filmati appositamente realizzati per il vostro blog della Scienza preferito.
Stay tuned!

 

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Gli elefanti temono le api

Secondo una recente ricerca, quando gli elefanti percepiscono il ronzio di uno sciame di api non esitano un istante a darsi alla fuga. Quella che a prima vista potrebbe semplicemente apparire come una scoperta bizzarra, ha letteralmente sorpreso gli etologi, sbalorditi dalla rapidità con la quale gli elefanti fuggono dal potenziale pericolo.

elefante.jpgNonostante la pelle di questi pachidermi sia sufficientemente spessa e coriacea da non poter essere ferita da un pungiglione, è da tempo nota una certa avversione degli elefanti nei confronti delle api. Queste sono infatti attratte dai piccoli depositi di acqua che si accumulano intorno agli occhi degli elefanti.
La curiosa scoperta è stata resa possibile dall’ottimo lavoro svolto dalla ricercatrice Lucy King della Oxford University (Gran Bretagna): “Non siamo rimasti tanto sorpresi dal fatto che gli elefanti abbiano risposto sentendo la riproduzione del ronzio delle api, sono animali molto intelligenti e attenti a tutto ciò che li circonda, ma non avremmo mai potuto immaginare che potessero darsi alla fuga così rapidamente!”.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Current Biology, ha dimostrato come in appena dieci secondi dall’inizio del ronzio gli elefanti decidano di allontanarsi per scongiurare qualsiasi contatto con le api.
La paura di essere punti deve essere molto alta. Analizzando la vegetazione, i ricercatori hanno scoperto che gli alberi con favi, abitati o abbandonati, sono accuratamente evitati dagli elefanti. Altre ricerche, svolte in Zimbabwe, hanno poi dimostrato come interi gruppi di elefanti preferiscano studiare nuovi percorsi pur di non incrociare i favi di api.

Lucy King ha esposto diversi gruppi di elefanti alla registrazione del ronzio delle temibili api africane. Su diciassette famiglie di elefanti, sedici hanno abbandonato il posto in cui si trovavano, impiegando al massimo un minuto e mezzo per prendere questa decisione.
Questa scoperta potrebbe essere sfruttata per mantenere i pachidermi a debita distanza dalle piantagioni dei coltivatori locali. Le scorribande degli elefanti causano ogni anno ingenti danni all’agricoltura africana, spingendo gli agricoltori a intraprendere cruente battute di caccia per difendere i loro raccolti. Le api potrebbero quindi diventare un ottimo, e incruento, deterrente.

Il video girato da Lucy King:

Mario R. Capecchi, Martin J. Evans e Oliver Smithies Premi Nobel 2007

La Nobel Assembly ha ufficializzato il conferimento del premio nobel per la medicina a Mario R. Capecchi, Martin J. Evans e Oliver Smithies. Mentre si è giustamente parlato molto delle biografie dei tre premiati, minore attenzione è stata dedicata alla scoperta che è valsa loro il più ambito premio in ambito scientifico. Proviamo quindi a scoprire qualcosa di più su questa scoperta da Nobel.

Mario R. Capecchi [photo credit: Tim Roberts/PR Newswire, © HHMI]Attraverso studi e approcci differenti, i tre ricercatori insigniti con il premio Nobel sono stati artefici di una serie di scoperte senza precedenti legate alle cellule staminali e alla ricombinazione del DNA, il nostro patrimonio genetico, nei mammiferi. Le loro scoperte hanno portato alla creazione di una nuova tecnologia, il “gene targeting”, che potrà essere impiegata in medicina per lo sviluppo di nuove e rivoluzionarie terapie.
Utilizzato per disattivare singoli geni (i portatori delle istruzioni per costruire gli organismi viventi), il “gene targeting” consente di creare praticamente qualsiasi tipo di modifica al DNA, consentendo ai genetisti di valutare la funzione di ogni singolo gene.

Modificare i geni con la ricombinazione omologa
Oliver Smithies [photo credit: Scanpix/Dan Sears] Come sappiamo ormai da tempo, le informazioni per lo sviluppo e la vita degli organismi viventi sono contenute nella doppia elica del DNA. Questo libretto delle istruzioni è raccolto nei cromosomi, i contenitori del codice genetico ereditati a coppie dal padre e dalla madre. La “ricombinazione omologa” è il momento in cui il cromosoma maschile si fonde con quello femminile. Questo scambio di DNA consente l’estrema variabilità genetica rendendo ogni organismo praticamente unico al mondo.

Capecchi e Smithies partirono da questi presupposti, lavorando per anni sulla ricombinazione omologa nell’intento di modificare i geni dei mammiferi in maniera estremamente mirata.
Con i suoi studi, Capecchi dimostrò che la ricombinazione omologa poteva essere influenzata inserendo “pezzi di DNA” nei cromosomi. Il neo-Nobel per la medicina riuscì a riparare geni danneggiati intervenendo nella ricombinazione omologa con nuove istruzioni genetiche. Partendo dagli incredibili risultati ottenuti da Capecchi, Smithies scoprì che le porzioni di DNA endogeno (cioè inserito in laboratorio nelle cellule) potevano essere utilizzate in diversi tipi di geni a prescindere dalla loro funzione. Ciò suggerì che tutti i geni potessero essere modificati durante la fase di ricombinazione omologa.

Cellule embrionali staminali: l’anello mancante
Le tipologie di cellule inizialmente studiate da Capecchi e Smithies non potevano però essere usate per creare animali con specifiche mutazioni ottenute in laboratorio. E qui entra in scena Martin Evans, il terzo Premio Nobel di quest’anno per la medicina.
Evans aveva studiato per molto tempo un particolare tipo di cellule embrionali del carcinoma dei ratti (EC) che, nonostante provenissero da un tumore, potevano generare praticamente qualsiasi tipo di cellula. Evans decise di utilizzare le cellule di EC come un “cavallo di Troia” per introdurre nuovo materiale genetico nella linea di evoluzione del tumore nei ratti. Dopo alcuni tentativi fallimentari, Evans si rese conto che l’introduzione di nuovo materiale genetico poteva avvenire a uno stadio precedente in alcune cellule non ancora specializzate: le cellule embrionali staminali. L’anello mancante delle ricerche di Capecchi e Smithies.

Topo knockout
Gene targeting [Photo credit:Nobel Prize] Tra il 1986 e il 1989 i tre scienziati lavorano alacremente per la creazione del primo organismo vivente creato grazie al “gene targeting”. Capecchi e Smithies avevano trovato la strada per arrivare a questo risultato, mentre Evans l’automobile per compiere il tragitto identificato dai due colleghi.
Con la nascita negli anni Ottanta del primo topo “knockout”, cioè con l’espressione di un gene soppressa in laboratorio, i tre genetisti dimostrarono di essere in grado di determinare l’espressione genica in un organismo vivente. Una scoperta senza precedenti e dall’inestimabile valore scientifico.

La rivoluzione del “gene targeting”
Il “gene targeting” permette ormai da anni di approfondire le nostre conoscenze su molteplici aspetti della vita dei mammiferi. Questa tecnologia, affidabile e relativamente semplice da ottenere in laboratorio, è stata impiegata da centinaia di centri di ricerca in tutto il mondo, in un numero vastissimo e svariato di sperimentazioni.
Grazie a Capecchi, Smithies, Evans e al loro “gene targeting” è stato possibile scoprire la funzione di centinaia di geni implicati nello sviluppo dello stadio fetale dei mammiferi.
Le ricerche di Capecchi hanno fatto luce sul ruolo dei geni coinvolti nello sviluppo degli organi e della struttura anatomica dei mammiferi, contribuendo a risolvere molti misteri legati alle malformazioni prenatali.
Con i suoi studi, Evans è riuscito nell’ardua impresa di creare mappature genetiche ad hoc per studiare molte patologie umane sui ratti, ottenendo importantissimi risultati nella terapia genica di alcune malattie come la fibrosi cistica.
Come Evans, anche Smithies ha sfruttato il “gene targeting” per creare organismi ideali per lo studio di particolari patologie, come la talassemia, l’ipertensione e l’arteriosclerosi.

Il “gene targeting” interessa ormai quasi tutti i campi della medicina. Il suo impatto sulla ricerca genica e lo sviluppo di nuove cure per il cancro e molte malattie ereditarie è destinato ancora a crescere nei prossimi anni.
L’intera comunità scientifica, e noi tutti, dobbiamo moltissimo agli incredibili risultati ottenuti con caparbia e tenacia da Capecchi, Smithies ed Evans. E un Premio Nobel non poteva che essere il miglior “grazie” possibile.

Migliaia di microbi nelle profondità oceaniche

Coste dell’OregonMigliaia di nuovi microbi sono stati scoperti nelle profondità oceaniche al largo delle coste dell’Oregon (Nord-Est degli USA) da un team di scienziati del Marine Biological Laboratory (MBL) dell’Università di Washington.
La scoperta, pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Science, è il risultato della più grande catalogazione mai realizzata per studiare il ruolo dei microbi marini nella produzione di anidride carbonica, azoto e zolfo.

Batteri isolati nelle acque al largo dell’Oregon [photo credit: Julie Huber]Utilizzando una nuova tecnica di analisi, i ricercatori hanno potuto mappare migliaia di nuove sequenze di DNA appartenenti a batteri e archei, due dei tre maggiori domini degli esseri viventi.
Le approfondite ricerche sul fondale marino e alle pendici di un vulcano sottomarino hanno consentito il ritrovamento di oltre 3.000 tipi di archei e 37.000 batteri. “Molti di questi microbi non erano mai stati scoperti, alcuni sono talmente differenti dai tradizionali batteri da non poter essere facilmente catalogati” ha dichiarato la responsabile del progetto Julie Huber.

Per comprendere pienamente le dinamiche di cresciuta e sviluppo di queste sterminate colonie di microbi, i ricercatori dovranno mappare meticolosamente il DNA dei batteri identificati nelle profondità oceaniche, distinguendo le mutazioni delle specie già note da quegli esemplari ancora sconosciuti e quindi mai catalogati.
La ricerca ha infatti dimostrato come questi nuovi microbi oceanici siano in grado di adattarsi perfettamente all’ambiente che li circonda, differenziandosi a seconda delle profondità in cui vivono e proliferano. Lo studio di queste particolari abilità potrà aiutare gli scienziati nell’analisi dei cambiamenti degli ecosistemi indotti dai fenomeni naturali, o legati all’attività dell’uomo.

Come si fa una matita?

matitaa.jpg Il tipo di matite che usiamo ogni giorno ha un’origine relativamente recente. Prima di scoprire e affinare pennelli e inchiostro, le antiche civiltà (Egizi, Greci, Romani) utilizzavano dei particolari dischetti in piombo per tracciare linee, ideogrammi e lettere su papiri e pergamene (ancora oggi la mina delle matite viene chiamata lead, cioè piombo, nei paesi anglosassoni).

Nel Trecento molti artisti europei utilizzavano bastoncini di piombo, argento o zinco per tracciare schizzi e abbozzi delle loro opere. Due secoli dopo, lo svizzero Konrad von Gesner descrive per la prima volta in uno dei suoi testi un particolare bastoncino per scrivere, racchiuso in un involucro cilindrico di legno. Nel 1564 a Borrowdale, nord dell’Inghilterra, la scoperta della grafite pura sancì la fine del piombo usato fino ad allora per scrivere e disegnare. Per ottenere la mina si miscelano grafite, acqua e argilla La grafite è un minerale e rappresenta uno degli stati allotropici (cioè la capacità di un elemento di presentarsi sotto diverse forme) in cui si può presentare il Carbonio. Grazie alla sua conformazione laminare, se trascinata su un foglio la mina di grafite rilascia uno strato sottilissimo di minerale che – penetrando nelle porosità della carta – assicura un segno sufficientemente netto e duraturo.

La guaina che racchiude la mina è generalmente costituita da un cilindro cavo di legno tenero, adatto alle lamette dei comuni temperini. Il più utilizzato è il cedro bianco, per le matite professionali si utilizza di preferenza il legno molto pregiato ottenuto da alberi di 150-200 anni. Punta dura o morbida? Per produrre la mina delle matite, la grafite viene miscelata con argilla pura, la stessa utilizzata per la produzione della porcellana.
I due ingredienti vengono combinati in proporzioni diverse per produrre mine più o meno nere e di durezza variabile.

Il tipo di mina più utilizzato è quello HB (iniziali di Hard and Black). Le matite più tenere e più nere (B e BB) contengono più grafite, quelle più dure (da H a 10 H) una quantità progressivamente crescente di argilla.

Le mine delle matite colorate non contengono grafite: sono formate da argilla e cera, colorate con pigmenti. Per ottenere la mina si crea un impasto di polvere di grafite e argilla, che viene successivamente cotto in un forno. A causa della sua struttura friabile, la grafite non può essere macinata in un mulino tradizionale. Si utilizza quindi un “mulino a dischi”, in cui alcuni getti di aria compressa contenenti particelle di grafite vengono fatti collidere con forza l’uno contro l’altro per ridurre in microscopici frammenti il minerale.

L’impasto di grafite, argilla e acqua viene poi spinto in un estrusore (il suo funzionamento è simile a quello di un’enorme siringa) che compatta l’impasto producendo poi i sottilissimi “bastoncini” che costituiranno la mina, l’anima della matita. Dopo essere stati essiccati, questi bastoncini di grafite e argilla vengono cotti a una temperatura di circa 1.200°C. Terminata la cottura, le mine vengono irrorate con una cera lubrificante per facilitare lo scorrimento sulla carta.

L’assemblaggio delle guaine che contengono le mine ricorda la preparazione di un panino. Il primo strato di pane è costituito da particolari tavolette di legno, spesse la metà rispetto al diametro finale della matita, in cui si praticano le scanalature destinate ad ospitare le mine. Collocata la grafite, il panino viene terminato incollando una seconda tavoletta di legno. Una macchina provvede poi a separare le matite, conferendo loro un taglio esagonale o circolare.

Tocco d’arte finale, la verniciatura della guaina di legno con vernici rigorosamente atossiche. Pare resistano in pochi a non mordicchiare una matita, specie se i conti di algebra non tornano…

E le biro? Scopri come funzionano!