Passeggiata tra le stelle

Salvo casi eccezionali, le missioni spaziali degli Shuttle sono diventate normale routine cui i media dedicano lo spazio stretto necessario. Eppure, lassù a migliaia di chilometri dalla Terra, le squadre di astronauti compiono incredibili missioni dense di pericoli e incognite.
La maggior parte delle recente escursioni nel Cosmo è dedicata alla costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), la più grande base extraterrestre mai costruita. Durante queste missioni lo Shuttle si trasforma in un vero e proprio cargo per portare i nuovi moduli, le stanze della base spaziale, in orbita e costituire così l’intricato puzzle della ISS.

Queste magnifiche immagini immortalano i momenti salienti dell’ultima escursione spaziale dell’equipe di astronauti della missione STS-118. Trasformati in veri e proprio meccanici del Cosmo, questi uomini coraggiosi hanno lavorato per numerose ore sospesi nell’assenza di gravità, con la loro vita affidata a un braccio meccanico che li assicurava allo Shuttle.
Fotografie da brivido, quasi commoventi, che ci raccontano una routine fuori dal comune.

Astronauta con un modulo della ISS, sullo sfondo la TerraPasseggiata spaziale, in basso a destra si notano i due fili cui sono “appese” le vite dei due astronautiNella “pancia” dello Shuttle

Il muso dello Shuttle EndeavourLo Shuttle attraccato alla base spaziale internazionale

Attraverso un angusto tunnel gli astronauti raggiungo la ISS dallo ShuttleTempo per un saluto…

L’assenza di gravità ha i suoi vantaggi…Astronauta con corpo centrale della ISSIl cantiere stellare della base spaziale internazionale

Crisi di panico causate dall’anidride carbonica

In questi ultimi anni l’anidride carbonica non gode di un’ottima reputazione. Additate come la causa principale del surriscaldamento globale, le molecole di CO2 potrebbero essere anche responsabili nell’innescare violente crisi di panico nei soggetti maggiormente sensibili all’anidride carbonica, almeno secondo un innovativo studio pubblicato questa settimana su PloS One.

Modello molecolare dell’anidride carbonica [photo credit: Wikipedia]La capacità della CO2 di innescare crisi di panico nei soggetti affetti da crisi d’ansia era già nota da tempo. Alcuni psichiatri avevano teorizzato che la reazione di panico seguente all’inalazione di anidride carbonica fosse legata a un meccanismo inconscio del nostro cervello contro un gas potenzialmente letale. La “teoria del falso allarme da soffocamento” ipotizzava l’esistenza nel nostro cervello di un sensore deputato a rilevare la CO2 che, per cause sconosciute, era maggiormente sviluppato e sensibile in alcune persone a tal punto da indurre falsi allarmi.

ansieta.jpgPartendo da questa ipotesi, lo psichiatra Eric Griez della University of Maastricht (Paesi Bassi) ha messo a punto un test per valutare con precisione la teoria del falso allarme da soffocamento, effettuando il test su persone sane mai state soggette a crisi di panico e dotate quindi di un “sensore da CO2” non ipersensibile.
Con il suo team di ricercatori, Griez ha fatto inalare a 64 volontari quattro diverse miscele di aria compressa contenente il 9%, 17.5%, 35% o lo 0% di anidride carbonica. Dopo aver inalato ogni miscela, i volontari erano invitati a indicare la loro percezione di paura e disagio in una scala da uno a cento, nonché a indicare quali dei 13 più comuni sintomi da crisi di panico avvertissero.
All’aumentare della dose di CO2, Griez ha registrato un progressivo aumento di paura e disagio nei volontari. “Lo stato di panico sembra proprio essere una condizione ansiogena che comporta un allarme da soffocamento” ha dichiarato lo psichiatra nella sua ricerca. Oltre ai sintomi di disagio e paura, i volontari hanno anche sofferto di una progressiva perdita di contatto con la realtà, descrivendo la loro esperienza come “spaventosa, imprevista e in alcuni casi terrificante”.
Secondo Griez questi risultati dimostrano quanto le sensazioni emotive di ogni individuo siano legate alla salute fisica: “Il panico, che è la forma più parossistica di ansietà, è un vero e proprio urlo soffocato per la vita”.

I risultati di questa innovativa ricerca potranno aiutare i ricercatori nello studio più accurato degli stati di panico, fornendo un nuovo strumento per attivare le crisi di ansia anche in laboratorio.
Anche se il legame diretto tra crisi di panico e reazione alla CO2 va ancora approfondito, secondo Griez gli elementi emersi dal suo lavoro potranno aiutare la ricerca di nuovi farmaci per curare l’enfisema e l’asma. I pazienti che soffrono di queste patologie, infatti, non sono sempre in grado di assumere sufficiente ossigeno attraverso la respirazione. Ciò comporta un aumento di anidride carbonica nel loro organismo che, rilevata dal “sensore di CO2” posto nel cervello, innesca violente crisi di panico legate al timore del soffocamento.

Un virus contro il cancro

Un gruppo di ricercatori inglesi è riuscito nell’ardua impresa di trasformare geneticamente un virus, che normalmente causa il raffreddore, per combattere il cancro.

Il comune virus del raffreddore in un’elaborazione computerizzataGli oncologi e genetisti che hanno partecipato al progetto sono convinti che i virus geneticamente modificati potranno dimostrarsi molto più efficaci, e mirati, dei tradizionali farmaci chemioterapici. La chemioterapia, infatti, attacca e danneggia indiscriminatamente sia le cellule sane che quelle cancerogene, causando considerevoli effetti collaterali.
Guidata dal prof. Lawrence Young (University of Birmingham, UK), la ricerca sugli adenovirus modificati sta portando a risultati molto soddisfacenti. “Abbiamo identificato un vero e proprio tallone di Achille per le cellule tumorali” spiega Young ai giornalisti. “Si tratta di una sorta di interruttore molecolare che, collocato sulla superficie della cellula, può indurre le cellule a morire. Inoltre, questo interruttore provoca una risposta immunitaria dell’organismo che velocizza la regressione del cancro.”

Dettaglio di una cellula tumorale delle ovaieNormalmente, per creare reazioni nell’organismo che li ospita, i virus attaccano le cellule rilasciando alcuni geni con le “istruzioni” della malattia di cui sono portatori. Partendo da questo presupposto i ricercatori hanno pensato di seguire lo stesso stratagemma, affidabile ed efficace, dei virus per portare alle cellule geni e proteine per curare il cancro.
I primi esperimenti di laboratorio confermano l’importante scoperta effettuata dal team del prof. Young, che nei prossimi mesi inizierà i primi test clinici con un cospicuo numero di volontari, affetti da tumore alle ovaie e al fegato. Due forme di cancro molto tenaci ed estremamente variabili, in grado di diventare immuni ai farmaci chemioterapici. I virus modificati potrebbero costituire una innovativa ed efficace soluzione per questo genere di tumori. I ricercatori non escludono che, in una fase intermedia, questi virus possano fornire la chiave per rendere maggiormente efficaci i cicli di chemioterapia.

Sono numerosi i laboratori in tutto il mondo impegnati a studiare i virus per combattere il cancro. Fino ad ora solo due farmaci basati su questo principio sono stati immessi sul mercato in Cina, ma sussistono forti dubbi sulla serietà delle ricerche condotte per verificare i principi attivi.
Anche se occorreranno ancora alcuni anni prima di poter usufruire di nuovi farmaci mirati, questo genere di ricerche conferma quanto le cellule tumorali, colonizzate con più frequenza dai virus, siano molto meno in grado di difendersi rispetto alle loro “colleghe” sane.

4 Ottobre 1957

In un venerdì di 50 anni fa, dal cosmodromo di Baikonur (Kazakistan) veniva lanciato il vettore Semyorka R-7 per portare una preziosissima “palla” di alluminio in orbita. Era il satellite artificiale Sputnik1, il primo passo dell’uomo nell’Era Spaziale…

50 anni di Era Spaziale
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Denti a sciabola, ma morso da gattino

Il cranio di uno SmilodonteNell’immaginario collettivo, i macairodonti (erroneamente definiti tigri dai denti a sciabola) sono sempre stati reputati sanguinari predatori alla stregua del famelico Tyrannosaurus rex, delle vere e proprie macchine di morte. Dotati di una prominente corporatura gli esemplari di Smilodon (il genere più noto di macairodonte) possedevano due possenti canini affilati come coltelli.

Per oltre 150 anni, scienziati e paleontologi hanno discusso sulle possibili modalità di caccia attuate da questo predatore, cercando di capire in che misura potessero influire le sue due affilate zanne.
Un recente studio condotto in Australia, e pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Science, potrebbe finalmente fornire una risposta definitiva all’annosa questione… creando non pochi danni alla mitica reputazione di questi incredibili felini.

Il modello mostra le stretta mascella di uno Smilodonte [photo credit: Dr Stephen Wroe]I ricercatori dell’University of New South Wales e dell’University of Newcastle hanno utilizzato una particolare tecnica computerizzata (Finite Element Analysis – FEA) per testare l’effettiva forza del morso dello Smilodon.
Generalmente utilizzata per lo studio di treni, aeroplani e automobili, la FEA ha permesso ai ricercatori di calcolare con precisione quali forze fosse in grado di sopportare una struttura cranica come quella dello Smilodon, giungendo a risultati a dir poco sorprendenti.

smilodon.jpgIl team di ricerca è giunto alla conclusione che il morso dello Smilodon fosse relativamente debole, con una forza di appena un terzo rispetto alla potenza delle fauci di un comune leone dei giorni nostri. “Nonostante la sua reputazione, uno smilodonte mordeva applicando una forza comparabile a quella utilizzata da un comune gatto domestico” ha concluso impietosamente il paleontologo Steve Wroe, che ha collaborato alla ricerca australiana.
La limitata potenza delle sue fauci influenzavano sensibilmente le modalità di predazione dello Smilodon. Ottimo “lottatore”, dotato di una corporatura solida e possente, lo smilodonte atterrava le proprie prede a terra prima di morderle in punti vitali come la gola, causando una rapida morte per emorragia nella sua vittima.

Oltre alla singolare scoperta, la ricerca condotta dal team australiano ha dimostrato come procedure di analisi simili alla FEA possano essere utilizzate non solo nel campo delle costruzioni e dell’ingegneria, ma anche nella medicina e nella ricerca.

Il DNA dalle stelle

Alcuni degli elementi indispensabili per la vita sulla Terra, come l’ossigeno, l’acqua e il carbonio sono ormai ampiamente conosciuti anche dai “non addetti ai lavori”. A questi VIP della biochimica si aggiungono altri componenti meno noti, come l’adenina, ma ugualmente importanti per l’esistenza di moltissimi organismi viventi, tra cui il genere umano. Questa molecola è un vero e proprio motore della vita, in sua assenza le nostre cellule non potrebbero avere un metabolismo corretto e lo stesso DNA non potrebbe esistere, almeno nelle forme in cui lo conosciamo oggi.

Formula di struttura dell’adeninaDa molto tempo gli scienziati cercano di capire quale possa essere stata l’origine di una molecola così importante come l’adenina. Dopo numerose ricerche, il prof. Rainer Glaser della University of Missouri-Columbia (USA) potrebbe aver trovato una risposta.
Partendo dal presupposto che la via sulla Terra sia possibile grazie a una delicatissima, e fortuita, combinazione di elementi chimici, Glaser ha ipotizzato che l’adenina non abbia avuto origine sul nostro Pianeta, ma nelle profondità del Cosmo grazie alla polvere interstellare.
L’adenina si sarebbe trasferita da queste nubi di stelle alla Terra miliardi di anni fa, durante il lento raffreddamento del Pianeta seguito alle convulse fasi legate alla sua nascita.

Le polveri interstellari potrebbero contenere molecole di adenina“L’idea che alcune molecole provengano dallo spazio non è così balzana” ha spiegato Glaser. “È possibile ritrovare complessi aggregati di molecole sugli asteroidi, compresa l’adenina. Noi sappiamo che questo componente può essere sintetizzato altrove nel sistema solare, quindi perché dovremmo precludere la possibilità che l’adenina possa essere costruita in qualsiasi punto del cosmo all’interno delle polveri interstellari?”
Questa interessante teoria, pubblicata sull’ultimo numero della blasonata rivista Astrobiology da un team di ricercatori guidato da Glaser, evidenzia come tecnicamente nulla impedisca la creazione di una struttura molecolare come quella dell’adenina nello Spazio.

terra.jpgSecondo Glaser, l’alta concentrazione di acido cianidrico (HCN) in alcune nubi di polvere interstellare potrebbe indicare la presenza di adenina. Queste zone maggiormente dense di HCN costituirebbero un punto di osservazione privilegiato per la ricerca della vita nella Via Lattea, la nostra galassia.
“Il Cosmo è naturalmente immenso, ma le aree della Via Lattea in cui sono presenti le nubi di polvere sono poche e ancora meno quelle ricche di HCN. Alcune di esse hanno le potenzialità per sintetizzare le molecole essenziali per la vita. Partendo da questo presupposto, ora dobbiamo valutare con precisione le concentrazioni di acido cianidrico che potrebbero portarci all’adenina” ha dichiarato entusiasta Glaser. “La chimica che avviene lassù nello spazio può essere molto differente dalla chimica tradizionale. La concentrazione di energia e le condizioni in cui avvengono i processi possono essere estremamente diverse da quelle terrestri. L’importante è non approcciarsi a questo nuovo filone con troppi pregiudizi.”

Chissà, forse siamo davvero figli delle stelle…