Quando il nostro sistema immunitario diventa cieco

Studiando alcune funzionalità del nostro sistema immunitario, un gruppo di ricercatori ha scoperto un particolare processo che potrebbe spiegare l’incapacità del nostro organismo nel fornire un’adeguata risposta immunitaria contro le cellule tumorali. Questa scoperta potrebbe portare un giorno a una nuova generazione di farmaci per la cura dei tumori.

Linfocita T [credit: lbl.gov]In circostanze normali, il sistema immunitario circonda un agente patogeno o una ferita con una impenetrabile infiammazione, in grado di contenere la diffusione dell’infezione e combattere ciò che l’ha causata. Tuttavia, nel caso dei tumori, alcuni meccanismi cellulari contrastano l’insorgenza di uno stato infiammatorio, rendendo il tumore poco identificabile e molto difficile da estirpare con le semplici difese del nostro organismo.
Studiando le reazioni immunitarie, un gruppo di ricercatori del King’s College (Londra) è riuscito ad approfondire il ruolo di un particolare tipo di “cellule T” (linfociti) in grado di contrastare la fondamentale funzione dei macrofagi, cellule altamente specializzate in grado di inglobare nel loro citoplasma microorganismi e particelle estranee distruggendole. I ricercatori hanno così scoperto che le cellule T funzionano come una manopola per regolare il volume di una radio: questi linfociti regolano la risposta immunitaria dei macrofagi limitando la loro “aggressività” cieca, che li porterebbe a disgregare indistintamente qualsiasi antigene (sostanza estranea) presente nel nostro organismo.

Macrofago allunga la propria struttura per inglobare due possibili agenti patogeni [credit: Wikipedia EN]«Un segnale sufficientemente doloroso, come un piccolo taglietto sulla pelle, viene trattato automaticamente dal nostro organismo stimolando la produzione di macrofagi e quindi di uno stato infiammatorio. Abbiamo scoperto che le cellule T svolgono una funzione regolatrice per moderare la reazione dei macrofagi e sono in grado di arrestarne l’azione nel caso di falsi allarmi. Ciò aiuta il sistema immunitario a mantenersi stabile e a prevenire reazioni spropositate agli stimoli cui siamo ogni giorno sottoposti.» ha dichiarato entusiasta il prof. Leonie Taam. Sfortunatamente, le cellule T non riescono sempre a gestire al meglio la loro funzione regolatrice sui macrofagi. Spesso questi linfociti forniscono un’informazione errata al sistema immunitario, che quindi non riesce a rilevare la presenza di cellule tumorali.

Approfondendo i loro studi sul particolare rapporto tra cellule T e macrofagi, i ricercatori del King’s College mirano alla creazione di nuovi trattamenti farmacologici per combattere il cancro. La loro scoperta potrebbe portare, inoltre, a una cura per alcune patologie che causano infiammazioni croniche come l’artrite reumatoide.
La ricerca su questa nuova peculiarità del nostro sistema immunitario è ancora agli albori, ma la strada intrapresa appare già molto promettente.

Mangiarne di tutti i colori

Antocianine Scienziati e ricercatori concordano nel sostenere che una buona e corretta alimentazione sia in grado di scongiurare terribili malattie come il cancro. Proteine, carboidrati, lipidi e vitamine sono i mattoni con cui la nostra casa, il nostro corpo, si costruisce e si rigenera quotidianamente. Migliori saranno le materie prime e l’impresa costruttrice, più solida e sana sarà la casa nel tempo.
Dopo anni di studio e numerosi esperimenti in laboratorio, un team di ricercatori statunitensi ha dimostrato che alcuni pigmenti che rendono la frutta e la verdura rossa, viola o blu, rivestono un ruolo fondamentale nel combattere gli agenti cancerogeni.

Melazane Secondo questa ricerca, melanzane, cavoli rossi e mirtilli sarebbero in grado di rallentare la crescita delle cellule tumorali e, in alcuni casi, di disgregarne il nucleo portandole rapidamente alla morte, senza intaccare le cellule sane. I test di laboratorio hanno dimostrato, ad esempio, che una dieta ricca di ravanelli e carote nere è in grado di rallentare fino all’80% la crescita delle cellule responsabili del cancro al colon.
I pigmenti della frutta e della verdura appartengono a una particolare classe di antiossidanti, le antocianine, difficilmente assorbibili dal nostro organismo. Buona parte dei pigmenti viaggia attraverso il nostro stomaco senza essere intaccata dai succhi gastrici, ciò consente alle antocianine di raggiungere l’intestino mantenendo inalterate le proprie caratteristiche e di aggredire con efficacia le cellule tumorali del colon.

Mirtillo Guidati dalla dottoressa Monica Giusti, i ricercatori della Ohio State University hanno estratto un’ampia gamma di antocianine da frutta e verdura caratterizzate da una pigmentazione rossa, blu o viola. Le antocianine sono state poi aggiunte ad alcune cellule del tumore al colon coltivate in provetta.
Maisviola I ricercatori hanno così scoperto che le antocianine contenute nel mais viola sono in grado di dimezzare la velocità di crescita delle cellule tumorali. Altri studi in laboratorio hanno poi dimostrato come una dieta ricca di mirtilli e sorbo nero, generalmente utilizzati per insaporire marmellate e succhi di frutta, sia in grado di ridurre fino al 70% l’estensione delle aree tumorali nel colon.
“Questi cibi contengono numerosi nutrienti e stiamo appena iniziando a scoprire le loro proprietà e i loro effetti sulla salute” ha dichiarato Monica Giusti al Guardian. I risultati di questa prima fase di ricerca, che continuerà con l’analisi di tutte e 600 le antocianine finora conosciute, sono stati presentati all’annuale congresso della American Chemical Society di Boston, una delle più importanti e autorevoli associazioni scientifiche statunitensi.

Quello ottenuto dal gruppo di ricerca dell’Università dell’Ohio è un risultato eccezionale, ma la strada è ancora molto lunga. Se da un lato la bassa capacità di assimilazione da parte del nostro organismo rende le antocianine ideali per coadiuvare la cura del cancro al colon, dall’altro non consente un’altrettanta efficace cura di altre forme tumorali. I ricercatori dovranno quindi trovare una chiave per far circolare nel nostro corpo le antocianine, rendendole maggiormente assimilabili dall’organismo umano.
La ricerca della porta più adatta e del giusto mazzo di chiavi è iniziata. Speriamo si trovi presto un buon fabbro…

[pubblicato per la prima volta da anecòico su CattivaMaestra]

FTO, il gene dell’obesità

Dopo numerose ricerche, un team di genetisti è riuscito ad approfondire sensibilmente le conoscenze legate a FTO, il gene ritenuto responsabile dell’obesità, scoperto lo scorso aprile da un gruppo di ricerca britannico. La scoperta potrà aiutare a comprendere meglio come alcune persone tendano ad accumulare grasso più facilmente rispetto ad altre.

Secondo i risultati di questa nuova importante ricerca, pubblicata questa settimana sulla prestigiosa rivista scientifica Science, il gene FTO sarebbe in grado di attivare o disattivare la funzione di numerosi geni implicati nelle regolazioni metaboliche del nostro organismo e nella regolazione stessa della sensazione di appetito. “Questo è il primo sguardo all’interno del meccanismo responsabile dell’obesità” ha dichiarato entusiasta il prof. Stephen O’Rahilly della Cambridge University (UK), che ha partecipato allo studio: “La scoperta che FTO si comporti come un enzima compiendo questo genere di attività nel DNA è davvero sorprendente, ma c’è ancora molto lavoro da compiere per comprendere come sia in grado di influenzare il nostro peso corporeo”.

Nella sola Gran Bretagna, un quinto della popolazione è obesa e circa la metà dei cittadini di Sua Maestà sono in sovrappeso. In tutto il mondo sono circa 300 milioni le persone obese, soggette a gravi malattie circolatorie e cardiache, nonché alle forme più acute di diabete. Secondo la ricerca, statisticamente circa la metà della popolazione britannica portatrice di una variante del gene FTO pesa mediamente 1,6kg in più rispetto a chi non ne è portatore; vi è poi un 16% della popolazione dotato di due coppie del gene FTO che, mediamente, comporta un peso maggiore di 3kg rispetto alla media nazionale. Queste persone soffrono, inoltre, di maggiori rischi legati al diabete.
Secondo i ricercatori, il gene FTO potrebbe rivestire un ruolo molto importante nella gestione delle sensazioni di sazietà e appetito. Utilizzando particolari molecole (i metaboliti), in futuro si potrebbero creare farmaci appositi per curare le forme più gravi di obesità.

Vitamina D per invecchiare più lentamente

Secondo una recente ricerca, la vitamina D potrebbe rivestire un ruolo fondamentale nel rallentare i processi di invecchiamento e prevenire alcune malattie legate all’età avanzata. Condotto in Gran Bretagna, lo studio ha coinvolto oltre duemila donne su cui sono stati analizzati i livelli di vitamina D. Le donne con bassi livelli di questo nutriente presentavano segni biologici maggiormente evidenti legati all’invecchiamento.

Struttura chimica di base della vitamina D [credit: Wikipedia EN]I ricercatori del King’s College di Londra inizieranno ora la seconda fase di test clinici per confermare l’attendibilità della loro scoperta che, se venisse confermata, potrebbe portare a una nuova generazione di farmaci specificamente studiati per gli anziani.
Durante l’estate buona parte della vitamina D di cui l’organismo ha bisogno viene creata grazie a specifiche reazioni chimiche attivate dalla luce solare. Nei mesi invernali, invece, l’organismo accumula quotidianamente vitamina D dai cibi sopperendo alla minore quantità di luce solare cui viene esposto. Partendo da questo presupposto, il team di ricerca, guidato dal prof. Brent Richards, ha registrato i livelli di vitamina D di 2.160 donne in un’età compresa tra i 18 e i 79 anni tramite un banale prelievo di sangue. I ricercatori hanno poi analizzato i campioni isolando i globuli bianchi e studiando alcuni specifici marcatori genetici.

dna.jpgAnalizzando i telemori, le porzioni terminali delle lunghe catene di DNA, il team di ricerca ha potuto stabilire con precisione l’età biologica delle otre duemila volontarie. Con il passere degli anni, i telomeri divengono progressivamente più corti e la catena di DNA maggiormente instabile, analizzando questi parametri è dunque possibile stabilire l’età biologica di una persona, che può differire anche di molto da quella anagrafica.
Per l’esperimento le volontarie sono state divise in tre gruppi, organizzati in base ai loro livelli di vitamina D. La ricerca ha così evidenziato come le donne con un’alta concentrazione di vitamina D abbiano mediamente telomeri più lunghi, rispetto a quelle con bassi livelli del medesimo nutriente.
Pubblicata sulla prestigiosa rivista American Journal of Clinical Nutrition, la ricerca ha destato molto scalpore e interesse in ambito medico. Secondo il prof. Richards i risultati “sono molto interessanti poiché dimostrano per la prima volta che le persone con un alto livello di vitamina D potrebbero invecchiare molto più lentamente rispetto alle persone con bassi livelli di vitamina D. Questo potrebbe aiutarci a spiegare come la vitamina D svolga la sua funzione protettiva sul DNA e nei confronti di malattie legate all’avanzamento dell’età, come patologie cardiache e cancerogene”.

Le recenti linee guida nutrizionali raccomandano l’assunzione di una quantità minima di vitamina D pari a 200 UI (unità internazionali) per i soggetti giovani, che raggiunge le 600 UI per gli over 70. Una scatoletta di tonno da 85g contiene generalmente 200 UI di vitamina D. Ma attenzione, in caso di sovradosaggio questo nutriente può rivelarsi tossico e portare a nausea e gravi danni renali. Conviene dunque invecchiare con morigeratezza…

Paris Hilton e l’effetto analgesico sui topi

Paris Hilton potrebbe costituire un’ottima alternativa ai tradizionali analgesici. Un gruppo di neuroscienziati ha scoperto che una sagoma di cartone ritraente la ricca, e discussa, ereditiera è in grado di arrestare le sensazioni dolorose nei topi. La curiosa scoperta riguarda i soli topi di sesso maschile, e potrebbe essere causato dalla capacità dell’immagine di stressare questi piccoli quadrupedi.

L’idea per questo esperimento, sicuramente fuori dal comune, è venuta in mente al prof. Jeffrey Mogil della McGill University di Montreal (Canada) e al suo gruppo di ricerca che aveva notato come i topi maschi spendessero meno tempo a leccarsi le ferite per lenire il dolore se in presenza di uno dei ricercatori. Per capire se questo curioso comportamento fosse condizionato da variabili olfattive o visive legate alla presenza umana, i ricercatori hanno acquistato una delle tante sagome in cartone ritraenti Paris Hilton.
Al cospetto della ricca ereditiera, i topo maschi hanno dedicato molto meno tempo a leccarsi le ferite, mentre gli esemplari di sesso femminile hanno continuato a lenire il loro dolore senza prestar alcuna attenzione alla sagoma di cartone. Inserendo uno schermo nero tra i topi e Paris Hilton, l’effetto è completamente sparito.

Approfondendo i risultati della ricerca, il team guidato da Mogil ha scoperto che – nei soli topi maschi presentati a Paris – era drasticamente rallentata l’attività del gene c-fos, responsabile della trasmissione dei segnali dolorosi dal midollo spinale al cervello, chiaro indice di una ridotta attività neuronale legata ai centri del dolore.
Secondo i ricercatori della McGill University, l’effetto analgesico potrebbe essere ricollegabile a una fase di stress vissuta dai topi. Ricerche di laboratorio analoghe hanno già dimostrato un collegamento tra la percezione del dolore e lo stress nei roditori, generalmente esposti ad alcuni ormoni di gatto. In presenza di un predatore, del resto, restare fermi e continuare a leccarsi le ferite non sarebbe probabilmente il miglior modo per sopravvivere. I topi vedono quindi gli uomini come potenziali predatori e, per alcune ragioni ancora poco note, i maschi sarebbero molto più soggetti a questo genere di stress rispetto alle femmine.

La ricerca di Mogil dimostra quanto possano essere differenziate le reazioni alla paura tra esemplari di sesso maschile ed esemplari di sesso femminile. L’analisi dei risultati ottenuti in laboratorio consentirà di comprendere con maggiore precisione i meccanismi che portano agli atteggiamenti prettamente “di genere” non solo negli animali, ma anche tra gli esseri umani. A partire da Paris Hilton…

Isolato il gene responsabile dell’artrite

Un gruppo di ricercatori è riuscito a identificare un marcatore genetico che potrebbe portare alcune persone ad essere maggiormente predisposte all’artrite. La scoperta si potrebbe rivelare molto utile per comprendere con maggior precisione questa patologia debilitante e trovare nuove vie di cura.

Rappresentazione schematica dei meccanismi che portano all’insorgenza dell’artrite reumatoide [credit: en.sanofi-aventis.com]L’artrite reumatoide colpisce centinaia di migliaia di persone nei paesi maggiormente avanzati (nella sola Gran Bretagna sono circa 400.000 gli individui che ne soffrono) ed è causata da un’errata risposta del sistema immunitario, che attacca e distrugge le cartilagini nelle giunture ossee. Molto dolorosa e invalidante, l’artrite reumatoide porta alla progressiva perdita di mobilità degli arti e rende meno elastici e reattivi i vasi sanguigni, i polmoni, i muscoli e il cuore. Ogni anno sono migliaia i nuovi casi diagnosticati e, nonostante alcuni farmaci palliativi, allo stato non esiste una cura per questa terribile malattia.

L’artrite reumatoide porta alla irrecuperabile deformazione degli arti di chi ne è affetto [credit: pwp.netcabo.pt]Fino ad ora erano stati identificati due geni in grado di giustificare in parte l’insorgenza dell’artrite reumatoide nei soggetti predisposti. La scoperta del nuovo marcatore genetico, che ha diretta influenza sul gene TNAIF13 potrà portare a una comprensione più approfondita dello sviluppo della malattia.
Pubblicata sulla rivista scientifica Nature Genetic, la ricerca condotta da un team di ricercatori della Manchester University (UK) ha coinvolto circa 5.000 volontari affetti da artrite reumatoide, che hanno messo a disposizione il loro profilo genetico per un confronto con altri 3.000 soggetti sani. “I risultati cui siamo giunti ci portano a un passo dalla comprensione completa dei fattori genetici che si nascondono dietro questa malattia debilitante così diffusa nella popolazione” ha dichiarato con orgoglio Jane Worthington, che ha guidato il team di ricercatori e genetisti.

“Speriamo di essere presto in grado di interpretare i fattori genetici che portano all’insorgenza della malattia. Questa potrebbe essere un’ottima soluzione di calibrare terapie estremamente mirate” e quindi con minori effetti collaterali, ha dichiarato Worthington. I risultati della ricerca condotta alla Manchester University, e la conseguente identificazione del nuovo marcatore genetico, potranno portare allo sviluppo di nuovi farmaci mirati per portare sollievo ai milioni di persone che in tutto il mondo soffrono di questo male.