Un gene per spegnere il cancro

Un gruppo di ricercatori della University of Kentucky ha creato il primo essere vivente apparentemente immune al cancro e alle sue forme più aggressive. Questo considerevole passo avanti nella ricerca sui tumori è stato possibile grazie all’identificazione del gene “Par-4”, scoperto poco tempo fa da Vivek Rangnekar (UK College of Medicine – USA), un vero e proprio benefattore in grado di uccidere le cellule tumorali lasciando intatte quelle sane.

Rangnekar è riuscito ad allevare in laboratorio una generazione di topolini che non solo godono di ottima salute, ma possiedono anche il gene Par-4 che assicura loro l’immunità dal cancro. Rispetto ai loro “colleghi” del gruppo di controllo, i topolini con il gene Par-4 vivono mediamente un mese in più senza contrarre particolari patologie, un indicatore molto importante per verificare la non tossicità dell’innesto genetico.
«Abbiamo scoperto per la prima volta il gene Par-4 nella prostata, per poi renderci conto che il medesimo gene era presente anche all’esterno di essa. Par-4 si è manifestato in tutti i tipi di cellula che abbiamo analizzato ed è in grado di indurre a morire un ampia gamma di cellule tumorali, incluse naturalmente quelle del cancro alla prostata» ha dichiarato Rangnekar , per poi aggiungere: «Questo gene killer è molto selettivo quando si tratta di uccidere le cellule tumorali. Non uccide mai le cellule sane ed è quindi tra le pochissime molecole selettive conosciute fino ad ora per questo importantissimo scopo».

dna.jpgPer approfondire le loro conoscenze sul gene, il team di ricercatori guidato da Rangnekar ha introdotto Par-4 in alcuni embrioni di topo, animali che manifestano molto raramente questo gene. A differenza dei loro genitori, i cuccioli della seconda generazione hanno espresso in maniera diffusa il gene Par-4. Gli studi si sono rivelati molto promettenti e potrebbero presto condurre a una nuova cura genica contro numerose forme di tumore

L’innovativa ricerca è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Cancer Research e ha già destato l’interesse della comunità scientifica, specialmente dei tanti genetisti impegnati ogni giorno nello studio di nuove cure contro il male del millennio. I risultati ottenuti dal prof. Rangnekar aggiungono un ulteriore tassello al complicatissimo mosaico della cura genetica.
È naturalmente ancora presto per arrivare alla produzione di nuovi farmaci, il passaggio da topo a essere umano non è certo scontato e richiederà numerose ricerche. Tuttavia, a differenza dei tradizionali trattamenti chemioterapici e di radioterapia, l’utilizzo del gene Par-4 potrebbe consentire cure molto più efficaci e mirate, eliminando i numerosi effetti collaterali dei già validi presidi terapeutici utilizzati contro i tumori. Un’opportunità da non perdere, per la ricerca e per tutti noi.

Quando il nostro sistema immunitario diventa cieco

Studiando alcune funzionalità del nostro sistema immunitario, un gruppo di ricercatori ha scoperto un particolare processo che potrebbe spiegare l’incapacità del nostro organismo nel fornire un’adeguata risposta immunitaria contro le cellule tumorali. Questa scoperta potrebbe portare un giorno a una nuova generazione di farmaci per la cura dei tumori.

Linfocita T [credit: lbl.gov]In circostanze normali, il sistema immunitario circonda un agente patogeno o una ferita con una impenetrabile infiammazione, in grado di contenere la diffusione dell’infezione e combattere ciò che l’ha causata. Tuttavia, nel caso dei tumori, alcuni meccanismi cellulari contrastano l’insorgenza di uno stato infiammatorio, rendendo il tumore poco identificabile e molto difficile da estirpare con le semplici difese del nostro organismo.
Studiando le reazioni immunitarie, un gruppo di ricercatori del King’s College (Londra) è riuscito ad approfondire il ruolo di un particolare tipo di “cellule T” (linfociti) in grado di contrastare la fondamentale funzione dei macrofagi, cellule altamente specializzate in grado di inglobare nel loro citoplasma microorganismi e particelle estranee distruggendole. I ricercatori hanno così scoperto che le cellule T funzionano come una manopola per regolare il volume di una radio: questi linfociti regolano la risposta immunitaria dei macrofagi limitando la loro “aggressività” cieca, che li porterebbe a disgregare indistintamente qualsiasi antigene (sostanza estranea) presente nel nostro organismo.

Macrofago allunga la propria struttura per inglobare due possibili agenti patogeni [credit: Wikipedia EN]«Un segnale sufficientemente doloroso, come un piccolo taglietto sulla pelle, viene trattato automaticamente dal nostro organismo stimolando la produzione di macrofagi e quindi di uno stato infiammatorio. Abbiamo scoperto che le cellule T svolgono una funzione regolatrice per moderare la reazione dei macrofagi e sono in grado di arrestarne l’azione nel caso di falsi allarmi. Ciò aiuta il sistema immunitario a mantenersi stabile e a prevenire reazioni spropositate agli stimoli cui siamo ogni giorno sottoposti.» ha dichiarato entusiasta il prof. Leonie Taam. Sfortunatamente, le cellule T non riescono sempre a gestire al meglio la loro funzione regolatrice sui macrofagi. Spesso questi linfociti forniscono un’informazione errata al sistema immunitario, che quindi non riesce a rilevare la presenza di cellule tumorali.

Approfondendo i loro studi sul particolare rapporto tra cellule T e macrofagi, i ricercatori del King’s College mirano alla creazione di nuovi trattamenti farmacologici per combattere il cancro. La loro scoperta potrebbe portare, inoltre, a una cura per alcune patologie che causano infiammazioni croniche come l’artrite reumatoide.
La ricerca su questa nuova peculiarità del nostro sistema immunitario è ancora agli albori, ma la strada intrapresa appare già molto promettente.

Mangiarne di tutti i colori

Antocianine Scienziati e ricercatori concordano nel sostenere che una buona e corretta alimentazione sia in grado di scongiurare terribili malattie come il cancro. Proteine, carboidrati, lipidi e vitamine sono i mattoni con cui la nostra casa, il nostro corpo, si costruisce e si rigenera quotidianamente. Migliori saranno le materie prime e l’impresa costruttrice, più solida e sana sarà la casa nel tempo.
Dopo anni di studio e numerosi esperimenti in laboratorio, un team di ricercatori statunitensi ha dimostrato che alcuni pigmenti che rendono la frutta e la verdura rossa, viola o blu, rivestono un ruolo fondamentale nel combattere gli agenti cancerogeni.

Melazane Secondo questa ricerca, melanzane, cavoli rossi e mirtilli sarebbero in grado di rallentare la crescita delle cellule tumorali e, in alcuni casi, di disgregarne il nucleo portandole rapidamente alla morte, senza intaccare le cellule sane. I test di laboratorio hanno dimostrato, ad esempio, che una dieta ricca di ravanelli e carote nere è in grado di rallentare fino all’80% la crescita delle cellule responsabili del cancro al colon.
I pigmenti della frutta e della verdura appartengono a una particolare classe di antiossidanti, le antocianine, difficilmente assorbibili dal nostro organismo. Buona parte dei pigmenti viaggia attraverso il nostro stomaco senza essere intaccata dai succhi gastrici, ciò consente alle antocianine di raggiungere l’intestino mantenendo inalterate le proprie caratteristiche e di aggredire con efficacia le cellule tumorali del colon.

Mirtillo Guidati dalla dottoressa Monica Giusti, i ricercatori della Ohio State University hanno estratto un’ampia gamma di antocianine da frutta e verdura caratterizzate da una pigmentazione rossa, blu o viola. Le antocianine sono state poi aggiunte ad alcune cellule del tumore al colon coltivate in provetta.
Maisviola I ricercatori hanno così scoperto che le antocianine contenute nel mais viola sono in grado di dimezzare la velocità di crescita delle cellule tumorali. Altri studi in laboratorio hanno poi dimostrato come una dieta ricca di mirtilli e sorbo nero, generalmente utilizzati per insaporire marmellate e succhi di frutta, sia in grado di ridurre fino al 70% l’estensione delle aree tumorali nel colon.
“Questi cibi contengono numerosi nutrienti e stiamo appena iniziando a scoprire le loro proprietà e i loro effetti sulla salute” ha dichiarato Monica Giusti al Guardian. I risultati di questa prima fase di ricerca, che continuerà con l’analisi di tutte e 600 le antocianine finora conosciute, sono stati presentati all’annuale congresso della American Chemical Society di Boston, una delle più importanti e autorevoli associazioni scientifiche statunitensi.

Quello ottenuto dal gruppo di ricerca dell’Università dell’Ohio è un risultato eccezionale, ma la strada è ancora molto lunga. Se da un lato la bassa capacità di assimilazione da parte del nostro organismo rende le antocianine ideali per coadiuvare la cura del cancro al colon, dall’altro non consente un’altrettanta efficace cura di altre forme tumorali. I ricercatori dovranno quindi trovare una chiave per far circolare nel nostro corpo le antocianine, rendendole maggiormente assimilabili dall’organismo umano.
La ricerca della porta più adatta e del giusto mazzo di chiavi è iniziata. Speriamo si trovi presto un buon fabbro…

[pubblicato per la prima volta da anecòico su CattivaMaestra]

OGM contro l’infarto

Alcune particolari qualità di piante geneticamente modificate, in grado di produrre omega-3 con i loro oli essenziali, potrebbero costituire un’ottima protezione contro l’infarto e altre patologie vascolari. Utilizzando questi vegetali nella nutrizione degli animali, si potrebbero aumentare sensibilmente le quantità di omega-3 nella dieta senza intaccare le riserve ittiche sempre più scarse.

La lunga catena degli acidi grassi omega-3 [credit: Wikipedia IT]Le catene di acidi grassi EPA e DHA, contenute principalmente nell’olio di tonno, salmone e sgombro, possono fornire un’alta protezione contro le malattie cardiovascolari a rallentare la degenerazione neuronale negli anziani, nonché favorire lo sviluppo delle capacità mentali del feto nel grembo materno.
Gli esperti raccomandano di assimilare almeno 450mg di oli contenenti omega-3 ogni giorno, ma la maggior parte degli adulti ne assume mediamente la metà. Tra gli adolescenti, la quantità precipita ad appena 100mg al giorno, meno di un quarto della razione giornaliera consigliata. La carenza di questi importanti nutrienti può avere numerosi effetti negativi sulla salute delle persone maggiormente predisposte a patologie vascolari e di degenerazione cerebrale.
Il progetto europeo Lipgene raccoglie circa 200 scienziati ed economisti, impegnati da numerosi anni nello studio di precise strategie per aumentare l’assunzione di omega-3 nella dieta dei cittadini europei. Un’analisi svolta dal progetto ha dimostrato che la spesa per implementare l’uso di omega-3 si tradurrebbe in un considerevole risparmio per le cure sanitarie.

Secondo Ian Givens, professore alla University of Reading (Regno Unito) e membro del progetto Lipgene, una soluzione per la scarsa assunzione di omega-3 potrebbe essere l’integrazione di questi nutrienti nei cibi maggiormente graditi dai consumatori. «Ci eravamo posti l’obiettivo di raggiungere la quantità di 300mg di EPA e DHA in una porzione di carne da 200g. L’obiettivo è stato raggiunto e, se questa strategia venisse applicata in maniera estensiva, potremmo arrivare a un consumo giornaliero effettivo di 120-130mg al giorno di omega-3». Per ottenere questo risultato, Givens ha sperimentato un innovativo alimento per il pollame, basato su un mangime ricco di oli ottenuto dai pesci. Nonostante i risultati incoraggianti, questa soluzione non ridurrebbe però il depauperamento delle riserve ittiche mondiali.
Per molti ricercatori l’unica soluzione sostenibile per aumentare i livelli di omega-3 nella nostra dieta sarebbe il ricorso agli organismi geneticamente modificati: «È l’unica strada percorribile. In natura non esistono piante in grado di sintetizzare gli omega-3, per questo motivo la genetica è quindi la nostra unica alternativa» ha dichiarato il ricercatore Johnathan Napier.

EPA e DHA sono normalmente prodotti da alcune microscopiche alghe marine, che costituiscono la principale fonte di alimentazione per i piccoli pesci, che danno il via alla diffusione di questi acidi grassi nella catena alimentare. Napier ha così prelevato alcuni geni dalle alghe e li ha inseriti nelle piante di colza, che hanno così iniziato a sintetizzare gli oli ricchi di omega-3. Questi OGM potrebbero essere impiegati negli allevamenti, con benefici sia per il bestiame che per i consumatori delle loro carni. Questi oli sarebbero inoltre privi di contaminazioni da mercurio, un metallo sempre più presente in mare e di conseguenza in numerose specie ittiche.
La proposta di Napier ha naturalmente destato molta inquietudine tra i convinti oppositori all’introduzione degli OGM nella nostra alimentazione. Ancora una volta occorrerà capire, in maniera scientifica e rigorosa, se i vantaggi offerti dalle carni ricche di omega-3 supereranno i potenziali svantaggi di una tecnologia le cui conseguenze sono ancora poco note.

FTO, il gene dell’obesità

Dopo numerose ricerche, un team di genetisti è riuscito ad approfondire sensibilmente le conoscenze legate a FTO, il gene ritenuto responsabile dell’obesità, scoperto lo scorso aprile da un gruppo di ricerca britannico. La scoperta potrà aiutare a comprendere meglio come alcune persone tendano ad accumulare grasso più facilmente rispetto ad altre.

Secondo i risultati di questa nuova importante ricerca, pubblicata questa settimana sulla prestigiosa rivista scientifica Science, il gene FTO sarebbe in grado di attivare o disattivare la funzione di numerosi geni implicati nelle regolazioni metaboliche del nostro organismo e nella regolazione stessa della sensazione di appetito. “Questo è il primo sguardo all’interno del meccanismo responsabile dell’obesità” ha dichiarato entusiasta il prof. Stephen O’Rahilly della Cambridge University (UK), che ha partecipato allo studio: “La scoperta che FTO si comporti come un enzima compiendo questo genere di attività nel DNA è davvero sorprendente, ma c’è ancora molto lavoro da compiere per comprendere come sia in grado di influenzare il nostro peso corporeo”.

Nella sola Gran Bretagna, un quinto della popolazione è obesa e circa la metà dei cittadini di Sua Maestà sono in sovrappeso. In tutto il mondo sono circa 300 milioni le persone obese, soggette a gravi malattie circolatorie e cardiache, nonché alle forme più acute di diabete. Secondo la ricerca, statisticamente circa la metà della popolazione britannica portatrice di una variante del gene FTO pesa mediamente 1,6kg in più rispetto a chi non ne è portatore; vi è poi un 16% della popolazione dotato di due coppie del gene FTO che, mediamente, comporta un peso maggiore di 3kg rispetto alla media nazionale. Queste persone soffrono, inoltre, di maggiori rischi legati al diabete.
Secondo i ricercatori, il gene FTO potrebbe rivestire un ruolo molto importante nella gestione delle sensazioni di sazietà e appetito. Utilizzando particolari molecole (i metaboliti), in futuro si potrebbero creare farmaci appositi per curare le forme più gravi di obesità.

Vitamina D per invecchiare più lentamente

Secondo una recente ricerca, la vitamina D potrebbe rivestire un ruolo fondamentale nel rallentare i processi di invecchiamento e prevenire alcune malattie legate all’età avanzata. Condotto in Gran Bretagna, lo studio ha coinvolto oltre duemila donne su cui sono stati analizzati i livelli di vitamina D. Le donne con bassi livelli di questo nutriente presentavano segni biologici maggiormente evidenti legati all’invecchiamento.

Struttura chimica di base della vitamina D [credit: Wikipedia EN]I ricercatori del King’s College di Londra inizieranno ora la seconda fase di test clinici per confermare l’attendibilità della loro scoperta che, se venisse confermata, potrebbe portare a una nuova generazione di farmaci specificamente studiati per gli anziani.
Durante l’estate buona parte della vitamina D di cui l’organismo ha bisogno viene creata grazie a specifiche reazioni chimiche attivate dalla luce solare. Nei mesi invernali, invece, l’organismo accumula quotidianamente vitamina D dai cibi sopperendo alla minore quantità di luce solare cui viene esposto. Partendo da questo presupposto, il team di ricerca, guidato dal prof. Brent Richards, ha registrato i livelli di vitamina D di 2.160 donne in un’età compresa tra i 18 e i 79 anni tramite un banale prelievo di sangue. I ricercatori hanno poi analizzato i campioni isolando i globuli bianchi e studiando alcuni specifici marcatori genetici.

dna.jpgAnalizzando i telemori, le porzioni terminali delle lunghe catene di DNA, il team di ricerca ha potuto stabilire con precisione l’età biologica delle otre duemila volontarie. Con il passere degli anni, i telomeri divengono progressivamente più corti e la catena di DNA maggiormente instabile, analizzando questi parametri è dunque possibile stabilire l’età biologica di una persona, che può differire anche di molto da quella anagrafica.
Per l’esperimento le volontarie sono state divise in tre gruppi, organizzati in base ai loro livelli di vitamina D. La ricerca ha così evidenziato come le donne con un’alta concentrazione di vitamina D abbiano mediamente telomeri più lunghi, rispetto a quelle con bassi livelli del medesimo nutriente.
Pubblicata sulla prestigiosa rivista American Journal of Clinical Nutrition, la ricerca ha destato molto scalpore e interesse in ambito medico. Secondo il prof. Richards i risultati “sono molto interessanti poiché dimostrano per la prima volta che le persone con un alto livello di vitamina D potrebbero invecchiare molto più lentamente rispetto alle persone con bassi livelli di vitamina D. Questo potrebbe aiutarci a spiegare come la vitamina D svolga la sua funzione protettiva sul DNA e nei confronti di malattie legate all’avanzamento dell’età, come patologie cardiache e cancerogene”.

Le recenti linee guida nutrizionali raccomandano l’assunzione di una quantità minima di vitamina D pari a 200 UI (unità internazionali) per i soggetti giovani, che raggiunge le 600 UI per gli over 70. Una scatoletta di tonno da 85g contiene generalmente 200 UI di vitamina D. Ma attenzione, in caso di sovradosaggio questo nutriente può rivelarsi tossico e portare a nausea e gravi danni renali. Conviene dunque invecchiare con morigeratezza…