Isolato il gene responsabile dell’artrite

Un gruppo di ricercatori è riuscito a identificare un marcatore genetico che potrebbe portare alcune persone ad essere maggiormente predisposte all’artrite. La scoperta si potrebbe rivelare molto utile per comprendere con maggior precisione questa patologia debilitante e trovare nuove vie di cura.

Rappresentazione schematica dei meccanismi che portano all’insorgenza dell’artrite reumatoide [credit: en.sanofi-aventis.com]L’artrite reumatoide colpisce centinaia di migliaia di persone nei paesi maggiormente avanzati (nella sola Gran Bretagna sono circa 400.000 gli individui che ne soffrono) ed è causata da un’errata risposta del sistema immunitario, che attacca e distrugge le cartilagini nelle giunture ossee. Molto dolorosa e invalidante, l’artrite reumatoide porta alla progressiva perdita di mobilità degli arti e rende meno elastici e reattivi i vasi sanguigni, i polmoni, i muscoli e il cuore. Ogni anno sono migliaia i nuovi casi diagnosticati e, nonostante alcuni farmaci palliativi, allo stato non esiste una cura per questa terribile malattia.

L’artrite reumatoide porta alla irrecuperabile deformazione degli arti di chi ne è affetto [credit: pwp.netcabo.pt]Fino ad ora erano stati identificati due geni in grado di giustificare in parte l’insorgenza dell’artrite reumatoide nei soggetti predisposti. La scoperta del nuovo marcatore genetico, che ha diretta influenza sul gene TNAIF13 potrà portare a una comprensione più approfondita dello sviluppo della malattia.
Pubblicata sulla rivista scientifica Nature Genetic, la ricerca condotta da un team di ricercatori della Manchester University (UK) ha coinvolto circa 5.000 volontari affetti da artrite reumatoide, che hanno messo a disposizione il loro profilo genetico per un confronto con altri 3.000 soggetti sani. “I risultati cui siamo giunti ci portano a un passo dalla comprensione completa dei fattori genetici che si nascondono dietro questa malattia debilitante così diffusa nella popolazione” ha dichiarato con orgoglio Jane Worthington, che ha guidato il team di ricercatori e genetisti.

“Speriamo di essere presto in grado di interpretare i fattori genetici che portano all’insorgenza della malattia. Questa potrebbe essere un’ottima soluzione di calibrare terapie estremamente mirate” e quindi con minori effetti collaterali, ha dichiarato Worthington. I risultati della ricerca condotta alla Manchester University, e la conseguente identificazione del nuovo marcatore genetico, potranno portare allo sviluppo di nuovi farmaci mirati per portare sollievo ai milioni di persone che in tutto il mondo soffrono di questo male.

Come l’AIDS conquistò il mondo

Diffusione su scala planetaria del virus dell’HIV [credit: bloGalileo]L’analisi di cinque ceppi del virus HIV, dimenticati per circa vent’anni in un bagno di azoto liquido, sta fornendo numerosi dettagli su come e quando il virus si diffuse dall’Africa ad Haiti per poi fare la sua comparsa sulla scena internazionale.

Schema stilizzato di una sezione del virus dell’HIV [Wikipedia]L’indagine sulle origini dell’AIDS ha da sempre creato molta confusione. Quando i primi casi di AIDS si manifestarono tra alcuni individui immigranti da Haiti agli Stati Uniti, il Center for Disease Control e Prevention (CDC) di Atlanta inserì gli haitiani tra la popolazione maggiormente soggetta a contrarre il virus dell’HIV. Questa discutibile valutazione bollò gli immigrati di Haiti come la principale causa della diffusione dell’AIDS negli Stati Uniti d’America.
Da allora, la ricerca scientifica è riuscita a spostare il tema dal pregiudizio razziale alla ricerca della verità sulle origini epidemiche dell’AIDS. Attraverso l’analisi dei cinque campioni di sangue infetto, prelevato tra il 1982 e il 1983 da cinque pazienti haitiani a Miami, il team guidato dal biologo Michael Worbey (University of Arizona – USA) sta cercando di capire come la malattia si sia diffusa. “È il modo migliore per viaggiare indietro nel tempo” ha dichiarato il ricercatore. Nella sua ricerca pubblicata questa settimana sulla rivista Proceedings of the Nationa Academy of Sciences, Worobey ha focalizzato la propria attenzione sul ceppo HIV-1/B del virus. “Questa è la variante che portò alla scoperta dell’AIDS e a tutto ciò che siamo stati in grado di comprendere sulla malattia dal 1981 a oggi”.

Haiti: centro medico per malati di AIDS [credit: Msnbc]Dal raffronto scrupoloso delle analisi molecolari sui cinque virus isolati più di venti anni fa e sui casi registrati (naturalmente non come AIDS) nella seconda metà degli anni Sessanta, i ricercatori sono riusciti a tracciare con precisione gli spostamenti del virus, giunto ad Haiti intorno al 1966 dall’Africa centrale. Da qui si sarebbe poi diffuso nel 1969 agli Stati Uniti. Calcoli statistici alla mano, le probabilità che il virus si sia invece diffuso dagli States ad Haiti sarebbero pari solamente allo 0.00003%, una cifra infinitesimale che fa escludere questa eventualità. Giunto negli Stati Uniti, il virus si sarebbe poi diffuso in Canada e in Sud America. L’epidemia avrebbe poi continuato la sua corsa raggiungendo l’Europa e i paesi asiatici, per poi ritornare in Africa.

Dal vaccino per il Vaiolo una nuova arma contro il cancro

Una particolare forma del virus del Vaiolo, utilizzato come vaccino, rappresenta una nuova speranza per la cura di numerose tipologie di cancro. Recenti ricerche di laboratorio hanno dimostrato l’efficacia del vaccino del vaiolo nel mantenere sotto controllo un tipo di carcinoma letale per i tessuti del fegato.

Virus del vaioloDa una decina di anni, scienziati e ricercatori selezionano geneticamente alcuni virus in grado di individuare e distruggere le cellule tumorali in modo altamente selettivo. Sulla scia del successo ottenuto da un gruppo di ricercatori cinesi con il virus ONYX-015, il virologo Stephen Thorne della University of Pittsburgh (Pennsylvania – USA) ha avviato l’innovativo studio sul virus del vaiolo.
Sotto la sua attenta guida, un team di ricercatori ha rimosso una coppia di geni dal vaccino di un virus, indispensabili per la crescita di quest’ultimo all’interno delle cellule. In questo modo il virus può crescere solamente nelle cellule tumorali in cui è stato iniettato, senza contagiare le cellule sane. Oltre a rimuovere una coppia di geni, i ricercatori hanno provveduto a inserire nuove istruzioni genetiche all’interno del virus. Questo gene aggiuntivo è in grado di stimolare una violenta reazione del sistema immunitario, che riconosce e attacca le cellule tumorali infettate con il virus.

Tumore al fegato prima e dopo il trattamento con il vaccino modificato del virus del vaiolo. In quattro settimane la massa tumorale è diminuita a meno della metà [credit: Stephen Thorne/University of Pittsburgh | via Science]I risultati, a dir poco sorprendenti, ottenuti in laboratorio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Clinical Investigation, destando molto interesse nella comunità scientifica.
Le cellule tumorali potrebbero essere eliminate completamente dagli organismi utilizzando dosi controllate del virus combinate alle procedure farmacologiche già in uso. Ottenuto il via libera dalla Food and Drug Administration, il prof. Thorne potrà iniziare entro pochi mesi le prime sperimentazioni cliniche su un cospicuo numero di volontari. Dimostrare la sicurezza del trattamento sarà infatti il primo passo necessario per proseguire la ricerca. I test di laboratorio hanno dimostrato come il vaccino del vaiolo non comporti alcun rischio per le cellule sane, ma per precauzione si pensa di ricorrere ugualmente all’utilizzo di immunizzanti per arginare eventuali reazioni al virus.

Quello che per secoli è stato un vero incubo per l’uomo, con decine di milioni di decessi, potrebbe ora trasformarsi in una nuova àncora di salvezza per l’epidemia del nuovo millennio.

Perché il raffreddore non si può curare?

Il raffreddore è un patologia che nel corso dei millenni ha sempre interessato buona parte della popolazione mondiale. Certamente malattie molto più devastanti hanno colpito il genere umano, ma secondo numerose statistiche quasi tutte le persone vissute sul Pianeta hanno contratto almeno una volta nella loro vita il raffreddore.
In età scolare i bambini possono contrarre il raffreddore anche dieci volte in un anno, i giovani adulti mediamente tre volte l’anno.

Per combattere il raffreddore i greci facevano spesso ricorso ai salassi, convinti di rimuovere con il sangue anche la malattia. Lo storico romano Plinio il Vecchio sosteneva invece che per curare il raffreddore bastasse baciare il muso peloso di un topo.
Compiendo un salto di numerosi secoli, arriviamo alla Common Cold Unit (Regno Unito) che dal 1946 al 1990 accolse centinaia di volontari disposti a farsi iniettare il virus del raffreddore per aiutare gli scienziati a trovare una risposta definitiva all’enigma. Dopo quasi cinquanta anni di onorati contagi, l’unità fu costretta a chiudere per mancanza di fondi, senza aver trovato una soluzione definitiva contro il raffreddore.

Aree dell’apparato respiratorio interessate dall’infiammazione da virus del raffreddore [credit: nlm.nih.gov]Nel corso degli ultimi decenni sono stati compiuti molti passi in avanti, approfondendo la conoscenza di questa malattia. Il comune raffreddore è causato da circa 200 tipi di virus, diversi tra loro, in grado di attaccare le mucose che rivestono il naso e la gola. Le mucose si infiammano e, rigonfiandosi, trasmettono un forte senso di disagio a chi ne è affetto, impedendo una corretta respirazione e una normale deglutizione.
Il virus del raffreddore si diffonde solitamente attraverso le particelle d’acqua emesse con il respiro. Contrariamente a quanto si possa immaginare, freddo e pioggia non causano il raffreddore. In un esperimento alcuni ricercatori lasciarono al freddo e zuppi d’acqua numerosi volontari, che non contrassero il virus. Dunque ci si ammala più frequentemente d’inverno non per le basse temperature, ma per la convivenza obbligata in spazi chiusi con altre persone, ove è molto più probabile il contagio. I germi del raffreddore, espulsi dalla respirazione, si depositano generalmente sulle mani e per trasferimento sugli oggetti che giornalmente tocchiamo, come le maniglie delle porte e gli asciugamani.

Modello di rinovirus, una delle più comuni cause del raffreddore [credit: Wikipedia EN]Ogni anno contraiamo un tipo diverso di raffreddore, cui il nostro sistema immunitario non sa rispondere perché non ha i giusti anticorpi. E’ l’estrema variabilità dei virus che causano la malattia a rendere il raffreddore una malattia non curabile.
Invecchiando, diventiamo immuni a un’ampia varietà di virus che provocano il raffreddore e che abbiamo incontrato nel corso della nostra vita, per questo motivo le persone anziane tendono a raffreddarsi con una frequenza minore.
L’antico detto secondo cui il raffreddore passa in una settimane se non curato e in sette giorni se si consulta un medico pare destinato a resistere ancora a lungo…

Troppo zucchero nei neuroni all’origine di malattie neurodegenerative

Considerato come un fenomeno molto salutare per le cellule, l’accumulo di lunghe catene di glucosio (glicogeno) può sensibilmente danneggiare le strutture neuronali. Pubblicata sull’ultimo numero di Nature Neuroscience, questa inaspettata scoperta è stata resa possibile dall’assiduo lavoro di un team di ricercatori spagnoli guidati dal prof. Joan J. Guinovart, direttore dell’Istituto di ricerca per la biomedicina di Barcellona, e dal prof. Santiago Rodríguez de Córdoba del Centro Superior de Investigaciones Cientificas (CSIC).

Struttura chimica del glicogeno, segmento [credit: Wikipedia]Il team di ricerca ha scoperto questa particolare reazione dei neuroni agli zuccheri analizzando la malattia di Lafora, una rara patologia che causa un’irreversibile degenerazione delle cellule neuronali negli adolescenti e per la quale non esiste ancora una specifica cura. Il morbo di Lafora si presenta generalmente con manifestazioni simili all’epilessia tra i 10 e 17 anni, causando una risposta inesatta dei muscoli alle stimolazioni nervose. In appena dieci anni questa terribile malattia paralizza completamente chi ne è affetto, riducendolo a un perenne stato vegetativo. La malattia è ereditaria ed è causata da una coppia di proteine, laforina e malina, che fanno sviluppare alcuni “noduli” nei neuroni, compromettendone il funzionamento.

“Noduli” neuronali causati dalla malattia di Lafora [credit: Louis Requena, M.D.]Grazie ai ricercatori spagnoli è stato possibile identificare, per la prima volta, i meccanismi che innescano il processo neurodegenerativo. “Abbiamo notato che la laforina e la malina agiscono in coppia come guardiani dei livelli di glicogeno nei neuroni, disgregandosi per mantenerne costanti i valori” spiega Joan J. Guinovart nella sua ricerca. “Quando i geni preposti alla creazione delle guardie sono danneggiati, accade che le due proteine non si disgregano più, causando un conseguente aumento di glicogeno che danneggia i neuroni fino a portarli a una precoce morte programmata (apoptosi).
Le incoraggianti conclusioni della ricerca potrebbero portare presto a una cura per la terribile malattia di Lafora. I ricercatori contano di identificare una molecola in grado di inibire la sintesi di glicogeno nei neuroni.
La scoperta sui meccanismi di accumulo di glicogeno e degenerazione nucleare potrebbe portare, inoltre, alla creazione di nuovi e più mirati farmaci non solo per arginare i danni delle malattie neurodegenerative, ma anche per curarle in maniera definitiva. La strada da compiere è certamente ancora molto lunga, ma un primo importantissimo punto è stato messo a segno.

Monossido di Carbonio, da veleno letale a medicinale

Nonostante la sua cattiva reputazione, il monossido di carbonio (CO) potrebbe rivelarsi un ottimo elemento per salvare vite umane e curare numerose patologie.
Un gruppo di chimici dell’University of Sheffield (UK) ha scoperto un metodo innovativo per utilizzare in maniera mirata minuscole dosi di CO per curare i pazienti che hanno da poco subito operazioni cardiache, trapianti d’organo o che soffrono di ipertensione.

Monossido di CarbonioAssunto in dosi massicce il monossido di carbonio può rivelarsi letale, ma in piccole quantità può aiutare a ridurre le infiammazioni, ripristinare il corretto lume (l’ampiezza) delle arterie, incrementare il flusso sanguigno, prevenire la formazione di coaguli e reprimere le dinamiche di rigetto che spesso causano gravi problemi a chi ha subito un trapianto d’organi.
I ricercatori britannici hanno sviluppato un’innovativa molecola solubile in acqua che, non appena viene ingerita o iniettata per endovenosa, rilascia in maniera sicura e controllata minuscole quantità di CO all’interno dell’organismo.
Il ruolo svolto dal monossido di carbonio nel regolare il nostro sistema immunitario era già noto da una decina di anni, ma nessuno era ancora riuscito a sviluppare una via affidabile e sicura per somministrare CO ai pazienti. Il metodo per inalazione, utilizzato da diversi anni, esponeva i pazienti a numerosi effetti collaterali e metteva anche a rischio lo stesso personale sanitario. Ora, per la prima volta, grazie alla chimica sarà possibile sviluppare nuovi formaci in grado di rilasciare CO in maniera controllata e sicura.

Prof. Brian Mann, coordinatore del team di ricercatori sul CO“La nostra molecola si dissolve completamente nell’acqua, è quindi di semplicissima somministrazione ed è in grado di raggiungere molto velocemente il flusso sanguigno” ha dichiarato il prof. Brian Mann, che ha coordinato il team di ricercatori. “Oltre a poter creare molecole sicure in grado di rilasciare CO, potremo anche sviluppare strutture molecolari per terapie estremamente mirate che interesseranno unicamente le parti dell’organismo da curare”.
Le molecole ideate dal gruppo di ricercatori della University of Sheffield sono costituite da gruppi carbonilici legati a metalli come il rutenio, il ferro e il manganese, già ampiamente testati e utilizzati nei trattamenti sanitari. Queste molecole possono essere progettate per rilasciare monossido di carbonio in periodi che variano da 30 minuti a un paio d’ore, a seconda delle necessità legate alle condizioni del paziente.

Entro due anni i ricercatori intendono iniziare i primi test clinici, fondamentali per verificare l’efficacia della loro scoperta, resa nota dall’Engineering and Physical Sciences Research Council (EPSRC), che potrebbe tradursi in una nuova generazione di medicinali in circa cinque anni.
Queste innovative molecole stanno destando molto interesse in ambiente scientifico e sanitario. Le loro incredibili potenzialità potrebbero contribuire a ridurre sensibilmente i tempi di recupero dopo un’operazione chirurgica, alleggerendo e ottimizzando considerevolmente il carico di lavoro per ospedali e personale medico.